CONGDON: MAESTRO, PADRE E AMICO
di Riccardo Secchi
Ho conosciuto Congdon ad Assisi nel 1977, quando da giovane studente di Belle Arti ebbi, insieme ad alcuni amici, la sfacciataggine giovanile di presentarmi davanti al portone di casa sua per chiedergli un giudizio ed un aiuto nel cammino artistico così confuso che avevo iniziato.
Che cosa ci aveva spinto a bussare a quella porta?
Passavamo ore a disegnare in Accademia e non ne sapevamo il perché: perché dovevamo disegnare o dipingere davanti a una modella, il perché ci veniva detto di “ritrovare i piani per dipingere il corpo”; chi erano i nostri insegnanti, che esperienza artistica e umana avevano? Non lo sapevamo! Non lo sapevamo, e nessuno dei nostri insegnanti era in grado di dircelo! Le lezioni rotolavano pigre ogni mattina verso non si sapeva cosa. Eravamo stanchi e nauseati perché ciò che l’uomo non sopporta è far le cose senza capirne il significato! Avevamo sete di ragioni incarnate in un’esperienza! Volevamo incontrare uno che ci raccontasse di sé. Ci occorreva un maestro!
Ci presentammo da lui in tre, armati dei nostri disegni. La sua accoglienza fu straordinaria e i suoi giudizi impietosi. Bocciò in due secondi tutto il nostro lavoro e, rimboccandosi le maniche, incominciò con pazienza a spiegarci, come un vero maestro, cosa significava disegnare, supremo allenamento di occhio e mano, e lo fece raccontandoci come lui aveva imparato seguendo il pittore Hensche, a Provincetown, e lo scultore greco Demetrios, a Boston. La sua immedesimazione con le nostre problematiche fu sbalorditiva. La sua amicizia fu piena di delicatezza e di attenzione. Finalmente potevamo respirare!
A quel primo incontro ne seguirono altri che pian piano ci fecero intravvedere una strada più certa per il nostro cammino.
Facemmo tesoro dell’aver incontrato un maestro e incominciammo a sperimentare in Accademia le novità di percorso che ci aveva comunicato, provando immediatamente il gusto di possedere un progetto di lavoro che cominciò a dare i primi buoni risultati, tra l’altro davanti agli occhi scettici e indifferenti di qualche insegnante che (poi lo scoprimmo) era stato a sua volta discepolo di Bill.
Un giorno di agosto mi invitò ad andare da lui a Subiaco dove aveva uno studio/abitazione presso la roccia del Beato Lorenzo, un antico eremo appollaiato a strapiombo sulla valle dell’Aniene. Ricordo ancora l’emozione che provai quando mi fece entrare nel suo studio piuttosto spoglio, illuminato da un lucernaio sul soffitto, studio dove non voleva mai nessuno quando dipingeva e che chiamava “la sala parto”. Mi invitò ad affacciarmi con lui dal balcone che guardava verso la valle: «Andiamo a vedere cosa succede là fuori!».
Davanti a noi un’alta montagna con la sommità rocciosa e priva di alberi si ergeva dal fondo della valle in tutta la sua imponenza severa. «Adesso dipingila!», mi disse invitandomi a rientrare e mettendomi in mano la sua spatola e i suoi tubetti di colore. Ero invaso dal timore e tremore di toccare quegli strumenti creativi e nel trovarmi davanti al tecnigrafo che usava come cavalletto.
Ebbe la delicatezza di non rimanere spettatore del mio impaccio e, trovando una scusa per uscire dalla stanza, seguiva i miei tentativi dalla camera attigua, con qualche domanda e dandomi consigli nel suo italiano americanizzato: «Come va? …Ricordati di guardare sempre al centro della massa e di non preoccuparti dell’incontro tra le masse della montagna e del cielo che verrà da sé!…».
In qualche modo me la cavai e, finito il lavoro, Bill venne a vedere. «Non c’è male. – mi disse – Adesso provo io!». E cominciò il lavoro spremendo il colore dai tubetti sul tavolo di marmo che usava come tavolozza. «In quella montagna c’è il verde delle foglie, ma c’è anche il marrone della terra, c’è il nero, c’è l’arancio…».
Con la lunga spatola cominciò a mescolare i colori aggiungendo a volte dell’uno, a volte dell’altro fino a che non otteneva il colore desiderato. Poi il gesto sicuro, netto e veloce sulla tavola nera che costituiva sempre il fondo dei suoi quadri. Muoveva con abilità quel “coltello”, come lui lo chiamava, lungo quasi una trentina di centimetri. Ecco apparire le forme sintetizzate, compatte e vellutate della montagna e del cielo, della parete rocciosa, qualcosa di vivo! Tra loro emergeva qualche traccia del fondo nero: «Lascia sempre che le masse si incontrino liberamente, non costringerle! Questa ferita che rimane tra loro è la possibilità del loro respiro, altrimenti soffocherebbero!» - mi diceva mentre dipingeva.
Com’era vero quel quadro, come corrispondeva a ciò che avevamo visto dal balcone, com’era amata quella montagna, quel cielo, con che tenerezza erano stati colti! Guardavo il mio esperimento che sembrava una crosta di plastica verde pallido e guardavo ciò che era nato dalle sue mani: il mio era già un cadavere, il suo era un neonato che vagiva! Ma non diede tregua alla mia tentazione di scoramento e continuò a spiegarmi, a consigliarmi, a incoraggiarmi con energia e dolcezza.
Credo che uno degli apporti più preziosi che Congdon abbia dato al nostro tempo, al di là dell’imponenza della sua opera pittorica ancora poco conosciuta in Italia, sia l’ininterrotto lavoro di riflessione e di giudizio sulla sua identità d’artista, sulla lealtà verso quel “dono creativo” da lui sempre riconosciuto come il fondamento della propria potenza creatrice e che dettava continuamente i passi del suo itinerario di artista cristiano.
Non c’era cosa più lontana da lui del definire cristiano un artista perché fa delle opere di contenuto cristiano, di contenuto sacro. La sua identità cristiana era destinata a sorgere da qualcosa di molto più profondo della semplice adesione ad un’ideologia cristiana. Attraverso l’incontro con Don Giussani si approfondì in lui la natura del cristianesimo come avvenimento, come evento di grazia che inaspettatamente coinvolge l’uomo in un abbraccio concreto ed umano. Da qui derivò l’approfondimento, mai concluso, del suo modo di intendere il “fare” artistico.
Il pittore autentico obbedisce ad “un’intuizione creativa” che avviene per accadimento nel suo impatto con le cose e la nascita del quadro assomiglia quasi alla gestazione ed al parto di una madre. Chi lo ha avvicinato sa quanto Congdon fosse cosciente che i suoi quadri non erano “suoi”: li chiamava “figli”, ma aveva tutta la consapevolezza che la loro “vita” li rendeva indipendenti dal loro creatore.
Bill per me fu anche il maestro che un giorno mi disse in maniera diretta che secondo lui io non ero portato alla pittura, forse il mio campo era quello dell’illustrazione, della grafica, ma non la pittura. Fu anche per questo che abbandonai i colori per circa 20 anni. Ma quando ho iniziato, nel 2004, non ho potuto che ricominciare dai suoi insegnamenti che mi avevano segnato profondamente.
Sono cosciente di non possedere la potenza del suo dono creativo, il suo segno deciso, il suo occhio. Lo considero comunque un padre e ringrazio per l’opportunità di questa mostra che mi permette di rendergli omaggio svelando la mia origine artistica.
Grazie.
Il presente testo è pubblicato nel catalogo della mostra “Vedute di Orïente. Omaggio a William Congdon. Personale di Riccardo Secchi” allestita a Assisi da marzo a giugno 2015.
di Riccardo Secchi
Ho conosciuto Congdon ad Assisi nel 1977, quando da giovane studente di Belle Arti ebbi, insieme ad alcuni amici, la sfacciataggine giovanile di presentarmi davanti al portone di casa sua per chiedergli un giudizio ed un aiuto nel cammino artistico così confuso che avevo iniziato.
Che cosa ci aveva spinto a bussare a quella porta?
Passavamo ore a disegnare in Accademia e non ne sapevamo il perché: perché dovevamo disegnare o dipingere davanti a una modella, il perché ci veniva detto di “ritrovare i piani per dipingere il corpo”; chi erano i nostri insegnanti, che esperienza artistica e umana avevano? Non lo sapevamo! Non lo sapevamo, e nessuno dei nostri insegnanti era in grado di dircelo! Le lezioni rotolavano pigre ogni mattina verso non si sapeva cosa. Eravamo stanchi e nauseati perché ciò che l’uomo non sopporta è far le cose senza capirne il significato! Avevamo sete di ragioni incarnate in un’esperienza! Volevamo incontrare uno che ci raccontasse di sé. Ci occorreva un maestro!
Ci presentammo da lui in tre, armati dei nostri disegni. La sua accoglienza fu straordinaria e i suoi giudizi impietosi. Bocciò in due secondi tutto il nostro lavoro e, rimboccandosi le maniche, incominciò con pazienza a spiegarci, come un vero maestro, cosa significava disegnare, supremo allenamento di occhio e mano, e lo fece raccontandoci come lui aveva imparato seguendo il pittore Hensche, a Provincetown, e lo scultore greco Demetrios, a Boston. La sua immedesimazione con le nostre problematiche fu sbalorditiva. La sua amicizia fu piena di delicatezza e di attenzione. Finalmente potevamo respirare!
A quel primo incontro ne seguirono altri che pian piano ci fecero intravvedere una strada più certa per il nostro cammino.
Facemmo tesoro dell’aver incontrato un maestro e incominciammo a sperimentare in Accademia le novità di percorso che ci aveva comunicato, provando immediatamente il gusto di possedere un progetto di lavoro che cominciò a dare i primi buoni risultati, tra l’altro davanti agli occhi scettici e indifferenti di qualche insegnante che (poi lo scoprimmo) era stato a sua volta discepolo di Bill.
Un giorno di agosto mi invitò ad andare da lui a Subiaco dove aveva uno studio/abitazione presso la roccia del Beato Lorenzo, un antico eremo appollaiato a strapiombo sulla valle dell’Aniene. Ricordo ancora l’emozione che provai quando mi fece entrare nel suo studio piuttosto spoglio, illuminato da un lucernaio sul soffitto, studio dove non voleva mai nessuno quando dipingeva e che chiamava “la sala parto”. Mi invitò ad affacciarmi con lui dal balcone che guardava verso la valle: «Andiamo a vedere cosa succede là fuori!».
Davanti a noi un’alta montagna con la sommità rocciosa e priva di alberi si ergeva dal fondo della valle in tutta la sua imponenza severa. «Adesso dipingila!», mi disse invitandomi a rientrare e mettendomi in mano la sua spatola e i suoi tubetti di colore. Ero invaso dal timore e tremore di toccare quegli strumenti creativi e nel trovarmi davanti al tecnigrafo che usava come cavalletto.
Ebbe la delicatezza di non rimanere spettatore del mio impaccio e, trovando una scusa per uscire dalla stanza, seguiva i miei tentativi dalla camera attigua, con qualche domanda e dandomi consigli nel suo italiano americanizzato: «Come va? …Ricordati di guardare sempre al centro della massa e di non preoccuparti dell’incontro tra le masse della montagna e del cielo che verrà da sé!…».
In qualche modo me la cavai e, finito il lavoro, Bill venne a vedere. «Non c’è male. – mi disse – Adesso provo io!». E cominciò il lavoro spremendo il colore dai tubetti sul tavolo di marmo che usava come tavolozza. «In quella montagna c’è il verde delle foglie, ma c’è anche il marrone della terra, c’è il nero, c’è l’arancio…».
Con la lunga spatola cominciò a mescolare i colori aggiungendo a volte dell’uno, a volte dell’altro fino a che non otteneva il colore desiderato. Poi il gesto sicuro, netto e veloce sulla tavola nera che costituiva sempre il fondo dei suoi quadri. Muoveva con abilità quel “coltello”, come lui lo chiamava, lungo quasi una trentina di centimetri. Ecco apparire le forme sintetizzate, compatte e vellutate della montagna e del cielo, della parete rocciosa, qualcosa di vivo! Tra loro emergeva qualche traccia del fondo nero: «Lascia sempre che le masse si incontrino liberamente, non costringerle! Questa ferita che rimane tra loro è la possibilità del loro respiro, altrimenti soffocherebbero!» - mi diceva mentre dipingeva.
Com’era vero quel quadro, come corrispondeva a ciò che avevamo visto dal balcone, com’era amata quella montagna, quel cielo, con che tenerezza erano stati colti! Guardavo il mio esperimento che sembrava una crosta di plastica verde pallido e guardavo ciò che era nato dalle sue mani: il mio era già un cadavere, il suo era un neonato che vagiva! Ma non diede tregua alla mia tentazione di scoramento e continuò a spiegarmi, a consigliarmi, a incoraggiarmi con energia e dolcezza.
Credo che uno degli apporti più preziosi che Congdon abbia dato al nostro tempo, al di là dell’imponenza della sua opera pittorica ancora poco conosciuta in Italia, sia l’ininterrotto lavoro di riflessione e di giudizio sulla sua identità d’artista, sulla lealtà verso quel “dono creativo” da lui sempre riconosciuto come il fondamento della propria potenza creatrice e che dettava continuamente i passi del suo itinerario di artista cristiano.
Non c’era cosa più lontana da lui del definire cristiano un artista perché fa delle opere di contenuto cristiano, di contenuto sacro. La sua identità cristiana era destinata a sorgere da qualcosa di molto più profondo della semplice adesione ad un’ideologia cristiana. Attraverso l’incontro con Don Giussani si approfondì in lui la natura del cristianesimo come avvenimento, come evento di grazia che inaspettatamente coinvolge l’uomo in un abbraccio concreto ed umano. Da qui derivò l’approfondimento, mai concluso, del suo modo di intendere il “fare” artistico.
Il pittore autentico obbedisce ad “un’intuizione creativa” che avviene per accadimento nel suo impatto con le cose e la nascita del quadro assomiglia quasi alla gestazione ed al parto di una madre. Chi lo ha avvicinato sa quanto Congdon fosse cosciente che i suoi quadri non erano “suoi”: li chiamava “figli”, ma aveva tutta la consapevolezza che la loro “vita” li rendeva indipendenti dal loro creatore.
Bill per me fu anche il maestro che un giorno mi disse in maniera diretta che secondo lui io non ero portato alla pittura, forse il mio campo era quello dell’illustrazione, della grafica, ma non la pittura. Fu anche per questo che abbandonai i colori per circa 20 anni. Ma quando ho iniziato, nel 2004, non ho potuto che ricominciare dai suoi insegnamenti che mi avevano segnato profondamente.
Sono cosciente di non possedere la potenza del suo dono creativo, il suo segno deciso, il suo occhio. Lo considero comunque un padre e ringrazio per l’opportunità di questa mostra che mi permette di rendergli omaggio svelando la mia origine artistica.
Grazie.
Il presente testo è pubblicato nel catalogo della mostra “Vedute di Orïente. Omaggio a William Congdon. Personale di Riccardo Secchi” allestita a Assisi da marzo a giugno 2015.