Il particolare umanesimo visivo e pittorico di Riccardo Secchi
di Emidio De Albentiis
Nell’animus di Riccardo Secchi convivono, in segreta armonia, due fondamentali fonti di ispirazione e di memoria, capaci mirabilmente di fondersi in lineare e perfetta coerenza con il particolare vissuto di questo artista: nato nel 1954 entro una famiglia in cui poté respirare fin da bambino l’amore per l’arte (suo nonno, che portava il suo stesso nome e cognome, fu scultore significativo fra l’ultimo Ottocento e l’epoca fascista, mentre dallo zio paterno Luciano, artista di minor rilievo ma senza dubbio dotato, ricevette i primi rudimenti tecnici e i primi importanti stimoli), Riccardo Secchi visse la sua infanzia e la sua giovinezza nella particolare atmosfera della pianura padana, in una delle tante città, Reggio Emilia, disposte lungo l’antichissimo percorso viario tracciato dai Romani. Prima dei suoi vent’anni la decisione di trasferirsi, per studiare pittura all’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci”, in una città e in una regione del tutto differenti, Perugia e l’Umbria, che sarebbero finite con il diventare la sua patria di adozione.
Sono quindi quasi quarant’anni che Riccardo Secchi coltiva dentro di sé due mondi, cercandone sottili accordi d’atmosfera pur nella diversità così palese degli scenari, evocazioni di memorie visive profondamente incise nella sua mente, vedute icastiche famigliari dell’Umbria diventatagli cara, ma pervase a volte da inattese sospensioni e malinconie o, addirittura, da fughe fantasticovisionarie.
In tali vedute, ma anche nei bei ritratti che l’artista ricava da persone osservate e “catturate” a loro insaputa affiora inoltre, molto spesso, una particolare sacralità, riconoscibile in certi precari silenzi e in certi flebili trasalimenti in cui pare avvertibile un acuto senso della fragilitas delle cose del mondo, siano esse umane o della realtà naturale: una fragilitas, però, che non pare disgiunta, in Riccardo Secchi, dalla fiducia in un Dio salvifico in grado di dare un senso alla nostra condizione così malsicura e difficile di esseri umani.
Possibili indizi di questa religiosità dell’artista, non banalmente confessionale, ma piuttosto esistenziale e filosofica, sembrano essere, oltre ai dipinti (alcuni dei quali saranno fra breve presi in esame), il lungo discepolato presso il grande pittore americano William Congdon – vissuto ad Assisi in un fondamentale periodo della sua parabola personale –, e le intense parole di Andrej Sinjavskij che Riccardo Secchi ha giustamente voluto inserire in questo catalogo. Ed è forse per queste profonde esigenze spirituali, ad una prima e superficiale percezione avvertibili solo in parte, che la pittura di questo artista cerca di superare il velo dell’apparenza sensibile, pur riproducendone così spesso le sembianze: ciò avviene anche grazie ad un utilizzo dell’olio che si arricchisce sovente, grazie all’uso della spatola, di grumi materici o, nelle opere più recenti, di una tecnica mista che prevede l’uso della cenere.
Ragioni di spazio impongono, in questa sede, di soffermarci, a mo’ di esempio, solo su alcuni dipinti di Secchi: inizierò la mia disamina da Campagna milanese con neve, in cui l’immagine invernale della pianura padana ricoperta dal manto soffice evocato nel titolo restituisce un’atmosfera di magica sospensione propria di una natura in cui non si odono voci e che sembra poter fermare all’infinito i suoi ritmi, che, però, riprenderanno fatalmente la loro corsa. Altri splendidi paesaggi di questo tipo sono Canale d’inverno (forse anch’esso padano, ma non necessariamente) e i quadri dedicati al Lago Trasimeno visto da angolazioni particolarissime e tutt’altro che banali: nel primo quadro si sentono echi provenienti dalla tradizione paesaggistica lombarda della Belle Époque, con particolare riguardo a pittori oggi quasi dimenticati, ma degni di memoria, come Pompeo Mariani ed Emilio Borsa, mentre nelle vedute dedicate al lago c’è tutta l’energia anticonvenzionale di un artista capace di mostrare il Trasimeno non nella sua tradizionale essenza di placido e incantato simbolo dell’Umbria, ma come emblema di una natura che nemmeno qui, in fondo, può trovare davvero una sua definitiva pacificazione. È la stessa inquietudine, a ben guardare, del dipinto scelto da Riccardo Secchi per la copertina del catalogo, quel Bosco sacro 2 di ispirazione umbra, vivo per le sue intense trasfigurazioni cromatiche (specialmente nel sottobosco) e per l’equilibrio malcerto della sua architettura naturale, ma “sacro” forse proprio per tutti questi motivi.
Ma se finora si sono prese in esame opere dedicate alla natura, è ora il momento di dedicare alcune riflessioni su dipinti centrati sulla presenza umana e antropica nel territorio: Secchi ha realizzato un’emozionante serie di quadri su un rudere nei dintorni di Perugia, oggi abbandonato, tipico esempio di archeologia industriale e, soprattutto, emblema icastico di caducità, secondo la medesima falsariga che si è più volte indicata in queste note. La profonda suggestione nasce proprio da questo contrasto: una fabbrica, fino a momenti recentissimi attiva e segno di progresso e di ricchezza, è divenuta ai nostri tempi, come numerose altre, il simbolo di un passaggio fra epoche, in una continuità del divenire che, come tutti i fenomeni umani, porta inevitabilmente con sé luci ed ombre, secondo logiche non sempre afferrabili. Se per questi splendidi dipinti di archeologia industriale può risultare indicativo il richiamo alla celebre opera fotografico-documentaria di Bernd e Hilla Becher, più cogente appare il confronto con un pittore romano attivo a Perugia e coetaneo di Secchi, Paolo Bellegrandi, che si ispira da tempo a tematiche similari in un’atmosfera che sembra talvolta coniugare il silenzio metafisico dechirichiano e le malinconie di Sironi, pittore, quest’ultimo, vicino all’ispirazione anche di Riccardo Secchi. In alcune ultime ricerche del nostro artista si stanno facendo strada, come già si accennava, anche tematiche fantastico-visionarie: è il caso, ad esempio, del Notturno con San Domenico, in cui è degna di nota soprattutto l’intensissima oscurità dello sfondo su cui si stagliano con inusitato e, per molti aspetti, imprevedibile bagliore le emergenze monumentali di San Domenico e di San Pietro nonché della più lontana Assisi posta a mezza costa sul Subasio.
È però l’uomo, con le sue domande irrisolte e con gli enigmi che lo accompagnano, ad essere comunque uno dei perni più profondi della pittura di Secchi, come ben rivela la serie di ritratti, con volti contraddistinti da una presenza tangibile quanto fragile, ulteriore e definitiva testimonianza del particolare umanesimo visivo di questo artista profondo e sensibile.
Testo introduttivo al catalogo della mostra di marzo 2010
di Emidio De Albentiis
Nell’animus di Riccardo Secchi convivono, in segreta armonia, due fondamentali fonti di ispirazione e di memoria, capaci mirabilmente di fondersi in lineare e perfetta coerenza con il particolare vissuto di questo artista: nato nel 1954 entro una famiglia in cui poté respirare fin da bambino l’amore per l’arte (suo nonno, che portava il suo stesso nome e cognome, fu scultore significativo fra l’ultimo Ottocento e l’epoca fascista, mentre dallo zio paterno Luciano, artista di minor rilievo ma senza dubbio dotato, ricevette i primi rudimenti tecnici e i primi importanti stimoli), Riccardo Secchi visse la sua infanzia e la sua giovinezza nella particolare atmosfera della pianura padana, in una delle tante città, Reggio Emilia, disposte lungo l’antichissimo percorso viario tracciato dai Romani. Prima dei suoi vent’anni la decisione di trasferirsi, per studiare pittura all’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci”, in una città e in una regione del tutto differenti, Perugia e l’Umbria, che sarebbero finite con il diventare la sua patria di adozione.
Sono quindi quasi quarant’anni che Riccardo Secchi coltiva dentro di sé due mondi, cercandone sottili accordi d’atmosfera pur nella diversità così palese degli scenari, evocazioni di memorie visive profondamente incise nella sua mente, vedute icastiche famigliari dell’Umbria diventatagli cara, ma pervase a volte da inattese sospensioni e malinconie o, addirittura, da fughe fantasticovisionarie.
In tali vedute, ma anche nei bei ritratti che l’artista ricava da persone osservate e “catturate” a loro insaputa affiora inoltre, molto spesso, una particolare sacralità, riconoscibile in certi precari silenzi e in certi flebili trasalimenti in cui pare avvertibile un acuto senso della fragilitas delle cose del mondo, siano esse umane o della realtà naturale: una fragilitas, però, che non pare disgiunta, in Riccardo Secchi, dalla fiducia in un Dio salvifico in grado di dare un senso alla nostra condizione così malsicura e difficile di esseri umani.
Possibili indizi di questa religiosità dell’artista, non banalmente confessionale, ma piuttosto esistenziale e filosofica, sembrano essere, oltre ai dipinti (alcuni dei quali saranno fra breve presi in esame), il lungo discepolato presso il grande pittore americano William Congdon – vissuto ad Assisi in un fondamentale periodo della sua parabola personale –, e le intense parole di Andrej Sinjavskij che Riccardo Secchi ha giustamente voluto inserire in questo catalogo. Ed è forse per queste profonde esigenze spirituali, ad una prima e superficiale percezione avvertibili solo in parte, che la pittura di questo artista cerca di superare il velo dell’apparenza sensibile, pur riproducendone così spesso le sembianze: ciò avviene anche grazie ad un utilizzo dell’olio che si arricchisce sovente, grazie all’uso della spatola, di grumi materici o, nelle opere più recenti, di una tecnica mista che prevede l’uso della cenere.
Ragioni di spazio impongono, in questa sede, di soffermarci, a mo’ di esempio, solo su alcuni dipinti di Secchi: inizierò la mia disamina da Campagna milanese con neve, in cui l’immagine invernale della pianura padana ricoperta dal manto soffice evocato nel titolo restituisce un’atmosfera di magica sospensione propria di una natura in cui non si odono voci e che sembra poter fermare all’infinito i suoi ritmi, che, però, riprenderanno fatalmente la loro corsa. Altri splendidi paesaggi di questo tipo sono Canale d’inverno (forse anch’esso padano, ma non necessariamente) e i quadri dedicati al Lago Trasimeno visto da angolazioni particolarissime e tutt’altro che banali: nel primo quadro si sentono echi provenienti dalla tradizione paesaggistica lombarda della Belle Époque, con particolare riguardo a pittori oggi quasi dimenticati, ma degni di memoria, come Pompeo Mariani ed Emilio Borsa, mentre nelle vedute dedicate al lago c’è tutta l’energia anticonvenzionale di un artista capace di mostrare il Trasimeno non nella sua tradizionale essenza di placido e incantato simbolo dell’Umbria, ma come emblema di una natura che nemmeno qui, in fondo, può trovare davvero una sua definitiva pacificazione. È la stessa inquietudine, a ben guardare, del dipinto scelto da Riccardo Secchi per la copertina del catalogo, quel Bosco sacro 2 di ispirazione umbra, vivo per le sue intense trasfigurazioni cromatiche (specialmente nel sottobosco) e per l’equilibrio malcerto della sua architettura naturale, ma “sacro” forse proprio per tutti questi motivi.
Ma se finora si sono prese in esame opere dedicate alla natura, è ora il momento di dedicare alcune riflessioni su dipinti centrati sulla presenza umana e antropica nel territorio: Secchi ha realizzato un’emozionante serie di quadri su un rudere nei dintorni di Perugia, oggi abbandonato, tipico esempio di archeologia industriale e, soprattutto, emblema icastico di caducità, secondo la medesima falsariga che si è più volte indicata in queste note. La profonda suggestione nasce proprio da questo contrasto: una fabbrica, fino a momenti recentissimi attiva e segno di progresso e di ricchezza, è divenuta ai nostri tempi, come numerose altre, il simbolo di un passaggio fra epoche, in una continuità del divenire che, come tutti i fenomeni umani, porta inevitabilmente con sé luci ed ombre, secondo logiche non sempre afferrabili. Se per questi splendidi dipinti di archeologia industriale può risultare indicativo il richiamo alla celebre opera fotografico-documentaria di Bernd e Hilla Becher, più cogente appare il confronto con un pittore romano attivo a Perugia e coetaneo di Secchi, Paolo Bellegrandi, che si ispira da tempo a tematiche similari in un’atmosfera che sembra talvolta coniugare il silenzio metafisico dechirichiano e le malinconie di Sironi, pittore, quest’ultimo, vicino all’ispirazione anche di Riccardo Secchi. In alcune ultime ricerche del nostro artista si stanno facendo strada, come già si accennava, anche tematiche fantastico-visionarie: è il caso, ad esempio, del Notturno con San Domenico, in cui è degna di nota soprattutto l’intensissima oscurità dello sfondo su cui si stagliano con inusitato e, per molti aspetti, imprevedibile bagliore le emergenze monumentali di San Domenico e di San Pietro nonché della più lontana Assisi posta a mezza costa sul Subasio.
È però l’uomo, con le sue domande irrisolte e con gli enigmi che lo accompagnano, ad essere comunque uno dei perni più profondi della pittura di Secchi, come ben rivela la serie di ritratti, con volti contraddistinti da una presenza tangibile quanto fragile, ulteriore e definitiva testimonianza del particolare umanesimo visivo di questo artista profondo e sensibile.
Testo introduttivo al catalogo della mostra di marzo 2010