Riccardo Secchi, la falda sotterranea riemerge
di Carlo Quarto
I semi sbocciano quando vogliono. Compreso il seme dell’ispirazione artistica. Certo, sbocciano solo se il terreno in cui sono stati piantati è fertile e amorevolmente irrigato, giudiziosamente concimato, fedelmente accudito; senza la pretesa che il fiore dell’arte germogli secondo le nostre previsioni o i comandi delle mode o delle urgenze commerciali, Riccardo Secchi esemplifica in modo lampante questa dinamica. Reggiano, classe 1954, si trasferisce con la famiglia (è lì che il seme è stato prodotto: il nonno era un artista e il padre, ufficialmente, falegname, ma il suo negozio era più un atelier che una falegnameria; i clienti erano più interessati alle inattese “statue”- ho davanti a me uno straordinario cesto di frutta in legno - che alle sedie) a Perugia, dove frequenta l’Accademia delle Belle Arti e specificamente il corso di pittura.
Non sono anni facili per un giovane che vuole imparare i segreti della creazione artistica (essa pure messa in discussione dal diluvio ideologico imperante nella stagione sessantottina). Fatto sta che il giovane Riccardo non trova nessuna soddisfazione e stimolo nella programmazione scolastica ufficiale: “Ci mettevano lì a copiare le modelle, senza spiegarci né il perché né dove si volesse arrivare”. Assieme a un compagno di studi che condivide la sua insoddisfazione e l’ansia di trovare punti di riferimento magisteriali seri, decide di andare a trovare il pittore William Congdon, che passava molti mesi in uno studio della vicina Assisi. Congdon (Bill per gli amici), artista di origini americane (nacque a Providence nel 1912), era stato uno dei protagonisti di quella straordinaria stagione pittorica dell’immediato post seconda guerra mondiale, che va sotto il nome di “action painting”; suoi amici e compagni di esposizione (nelle prestigiose gallerie di Peggy Guggenheim e Betty Parson) erano stati personaggi del calibro di Jackson Pollock e Mark Rothko. Dopo la conversione alla Chiesa cattolica (compiutasi proprio ad Assisi nella comunità della Pro Civitate Christiana), Congdon (di cui KOS si è occupato nel numero 119/120 del 1995), aveva continuato la sua instancabile ricerca del bello e del vero. Suoi soggetti erano sempre cose “reali” e realmente viste: città, campi, alberi, monumenti; l’adorata Assisi, il solitario eremo di Sublaco, le mete più esotiche dei suoi interminabili viaggi. Fino al pacificato approdo nella “bassa” milanese, dove fedele al suo realismo e al metodo pittorico proprio dell’action painting, ha realizzato per oltre un quindicennio fino alla morte nel 1998, una straordinaria stagione di capolavori.
Ma torniamo a Riccardo Secchi e al suo compagno di studi. Con una buona dose di faccia tosta che solo ai giovani è consentita (e che solo la larghezza d’animo dell’ormai più che maturo Congdon poteva apprezzare si presentano nello studio assisiate del grande artista e gli chiedono di aiutarli, di insegnar loro a dipingere. Con sé hanno qualche prova di disegno, frutto degli insegnamenti dell’Accademia. Suppongo che avessero portato quelli che ritenevano i migliori: almeno per poter fare una bella figura di fronte all’artista affermato. Il quale dice loro di buttare quei disegni e inizia pazientemente a proporre ai due giovanotti lo stesso apprendistato cui si era sottoposto lui. Niente orpelli tradizionalistici ma anche niente stupide fughe in avanti nell’allora molto coltivato campo dell’ideologia. Lo scopo del disegno non è l’analisi di quanto si vede, ma esattamente il contrario - la fissazione sulla carta degli elementi sintetici che la realtà offre. Perché la pittura (passo successivo al disegno) non è una fotografia debordante di dettagli; è la riproposizione sul pannello dell’immagine suscitata dalla realtà. E l’immagine è diversa dalla realtà perché tu, uomo e artista, della realtà cerchi il significato. Un significato che si esprime per forza in termini sintetici. Tutto ciò ha ricadute operative molto serie. I due studenti dell’Accademia si mettono a fare quanto a Congdon era stato indicato, negli anni Trenta, dal suo primo maestro di pittura: ritrarre una persona posta in controluce. Così, dice Congdon ai giovanotti, sei costretto a soprassedere sui particolari, che non
vedi, e a concentrarti sui contorni che definiscono il tutto, sulle masse e sui loro rapporti. Una volta Congdon porta lo studente di pittura nel suo studio di Subiaco, un ex eremo a strapiombo sulla valle dell’Amene: lo guida alla balaustra da cui si apre tutta la visione della vallata:”Vediamo un po’ quello che sta succedendo” dice, e poi lo riporta in studio: “Adesso dipingi quello che hai visto; poi lo farò anch’io”.
Il seme della pittura era ormai posto nell’animo di Riccardo Secchi. Ma doveva aspettare quasi trent’anni per fiorire. Finita l’Accademia, bisognava andare a lavorare (insegnamento dell’arte in scuole di vario ordine e grado, secondo quanto la faticosa burocrazia ministeriale consentiva): Congdon si era trasferito e le “lezioni” con lui non erano più possibili. In verità, ci fu per Secchi una breve stagione creativa. Non però, nel campo della pittura, ma in quello, più affine alle abilità manuali paterne, della scultura. Un amico sacerdote chiede all’artista neo diplomato di realizzare una via crucis in terracotta per un santuario a Castel Sant’Elia; Riccardo non è affatto spaventato di dover imparare una tecnica del tutto sconosciuta; del resto l’Umbria, che ormai è diventata la sua terra, è ricca di tradizioni in questo ambito, basti pensare alla città di Deruta, alle porte di Perugia, intenzionalmente nota per le sue ceramiche, oppure a Gualdo Tadino o Gubbio. Col consiglio di qualche vecchio artigiano, la tecnica della terra cotta e della sua decorazione è rapidamente appresa. La via crucis viene collocata nel posto stabilito. Seguono altre commesse simili per Brugherio, vicino a Milano, e nelle Marche, a Giulianova. Riccardo Secchi le realizza, ma poi dice “basta”.
Non è questa la sua strada. Il seme torna sotto terra e se son rose...
Un nuovo inizio
Se son rose fioriranno. La sbocciatura risale a un anno fa. Riccardo Secchi non se ne sa dare una spiegazione legata alla razionalistica logica della causa ed effetto. Ormai ha compiuto cinquant’anni; deve cambiare casa, il lavoro si è stabilizzato, le amicizie consolidate. Fatto sta che un giorno gli “viene voglia “ (usiamo questa espressione generica fino alla banalità per descrivere quella che pomposamente altri chiamano “ispirazione”) di dipingere. Cosa? Beh, non certo qualcosa di astratto (tanto per accodarsi all’andazzo più “in”), non certo qualcosa che serva a far bella mostra delle proprie abilità tecniche (è una velleità che può adescare un ventenne, non un uomo di cinquant’anni). Cosa, allora? La finestra; sì, la finestra della camera e quello che si intravede al di là di essa (Finestra 1). Riccardo Secchi - non dimentichiamo che ha alle spalle decenni di insegnamento di storia dell’arte - sa benissimo che si tratta di un soggetto “pericoloso”. La finestra è come un varco (come non pensare a Matisse o a Vermeer?), una misteriosa apertura che può provocare angoscia. O l’entusiasmo della scoperta. Per Secchi è senza dubbio questa seconda la strada aperta dalla “finestra “, tanto che da essa il suo occhio indagatore uscirà per scoprire (e riportare sul quadro) ciò che via via incontrerà. Inizia la nuova fase di creatività artistica. Oltre al “cosa” Riccardo Secchi ha il problema del “come”. Anche qui riaffiorano gli insegnamenti di Bill Congdon (del quale ad agosto proprio Assisi ha ospitato una mostra e non per nulla un giornale locale ha definito Secchi l’erede attuale del grande americano). Congdon, fedele alla pittura “di azione”, operava in un modo molto preciso; e così Secchi: niente tela (troppo elastica, non pone sufficiente resistenza al gesto del pittore ed è incapace di ricevere troppa materia pittorica), ma pannello di legno. Pannello preventivamente colorato di nero:è come l’emblema del nulla dal quale affiora l’immagine e un po’ di nero, nell’immagine, rimane sempre, quasi a ricordare che l’artista è sì creatore, ma non della stessa pasta del Creatore che, unico, sa far passare dal nulla all’essere. Niente pennelli (rischiano di fare perdere nel labirinto dell’analisi particolareggiata), ma la spatola, con la quale la materia pittorica può essere applicata in masse più ampie e sintetiche. Poi chiodi, pettini, spugne e bastoncini per intervenire sul pigmento a vivificarlo di quei particolari necessari e non contraddittori con l’insieme.
Basta che Secchi esca di casa e i possibili “soggetti”per i suoi quadri gli vengono incontro a decine. Ovviamente non tutti saranno ripresi; solo quelli che suscitano un qualche sussulto, offrono uno spunto particolarmente vitale. A dieci metri dalla sua abitazione, sulla curva di una delle strade panoramiche che contornano Perugia, si apre l’ampia pianura che separa il capoluogo umbro doli monte Subasio, sulla cui pendice - laddove la costa “frange /più sua rattezza” (Paradiso XI, vv. 49- 50) - sorge Assisi. Eccola allora sul pannello, l’imponente mole del monte; la piana che lo separa dalla casa di Secchi è ora florida di vegetazione primaverile (Subasio), ora acquosa per la neve che si scioglie (Subasio blu), ora attuffata nella calma notturna illuminata da una placida luna (Subasio con luna 2). Se poi da quella stessa curva ti volgi indietro verso la città, ti trovi di fronte la mole del complesso benedettino di San Pietro; eccolo in San Pietro (PG), col suo straordinario campanile quasi assorbito nel verde degli alberi del viale. Ovviamente la vicina Assisi non poteva non esercitare una particolare attrazione su chi vi abita a pochissima distanza; in San Rufino e Santa Chiara, e San Rufino, l’influenza di Congdon (che alla patria di San Francesco aveva dedicato importanti capolavori) è molto evidente nella scelta del “taglio” della visione e nella misteriosa precarietà degli edifici. Ma anche spazi più ridotti e minuti diventano soggetti per un quadro.
Particolarmente interessante mi pare Ulivi in campo giallo, dove Secchi, abbandonato per un po’ l’amato paesaggio umbro, si paragona con una Puglia solare, accecante, visitata in un’estate di vacanza.
Chiedo a Secchi se le sue opere siano frutto di un lavoro di memoria. Mi risponde che normalmente si avvale anche del supporto della fotografia. “Avendo in auto una macchina fotografica, qualora incontro - di solito del tutto casualmente - qualcosa che colpisce il mio occhio, mi fermo e lo fotografo. Poi, in studio, riguardo la fotografia e spesso ne nasce il quadro”. Ovviamente non si tratta di una pura trasposizione della foto sul pannello; la sfida dell’arte è che il quadro sia più “autentico” di quanto la retina registra e la pellicola riporta. Due opere mi sembrano rendere con evidenza questa dinamica. La prima è un campo di grano di grandi dimensioni (Campo di grano con croce). Quando guardi il quadro, di un giallo maturo che sa già di pane, ti accorgi immediatamente di una strana croce nel bel mezzo del campo. Guardando la foto non l’avevo notata; non era certo centrale nella visione. Eppure l’occhio di Secchi proprio da quella croce (è tradizione che i contadini mettano nei campi di grano croci di stoppie per implorare raccolti fecondi; un tempo i sacerdoti passavano di campo in campo a benedirle) era stato attratto. Proprio quella croce, che la foto registrava asetticamente, diventa nel quadro il punto enigmaticamente sintetico. Esempio analogo è Torre rosa. Guardo prima bene la fotografia: una valletta con i resti rosa mattone di una vecchia torre postale; sullo sfondo le pendici di Perugia. Nel quadro, invece, la torre è diventata di un rosa squillante, tenerissimo, primaverile. È lei che fa da fulcro a tutta la composizione; è lei (un rudere morto trasformato in vitale albergo dove, chissà, Secchi avrà fatto qualche bella cena con amici) l’emblema della vitalità umana in mezzo a una valle altrimenti vuota. Recentissimamente (almeno per quanto riguarda il momento in cui scrivo questa nota; le sorprese del futuro sono imprevedibili) l’interesse di Riccardo Secchi - e non poteva essere diversamente, data la stagione primaverile appena terminata e l’estate in piena esplosione si è appuntato sui fiori: un oleandro esplosivamente carico di vermigli boccioli (Oleandro rosso) e uno sgargiante sfarfallio di ginestre giallissime sullo sfondo del cupo verde dei loro rami (Ginestre). In queste composizioni è particolarmente evidente il lavorio di incisione sul pigmento, teso a rendere il moto e la profondità dell’oggetto rappresentato, che la pura spatolata rischierebbe di schiacciare in una bidimensionalità astratta.
E adesso?
Chiedo a Riccardo Secchi quali siano i suoi progetti per il futuro. Anzitutto vuol sottolineare che è già molto contento che la sua “vena” artistica sia ripresa e, nel giro di un solo anno, abbia prodotto risultati che giudica importanti: Ovviamente pensa agli esiti personali, ma noi dobbiamo aggiungere che tra i risultati vanno annoverate due mostre, una a Firenze in primavera e una estiva nella sua Perugia, e l’interesse di qualche acquirente. “Di progetti - aggiunge - non ne ho. Certamente aspetto il momento di sentirmi pronto ad affrontare il corpo umano”. Congdon, salvo rarissime eccezioni all’inizio della sua carriera, non lo aveva mai fatto. Certo, omini stilizzati si trovano in parecchi dei suoi dipinti, così come quelli di Secchi; basta guardare Roma, 6 aprile 2005, (il professor Secchi, in quella data, aveva accompagnato alcuni suoi alunni a rendere omaggio alla salma di Giovanni Paolo II e il suo occhio ha colto la fiumana brulicante del popolo in attesa di entrare nel bianco edificio della basilica vaticana) oppure Via Crucis (sempre nelle vesti di professore, Secchi aveva partecipato con alcuni ragazzi all’annuale via crucis sulle pendici romagnole di San Leo. “A un certo punto, ricorda, si parò davanti alla multicolore massa dei ragazzi una specie di nebbiolina fosca che sembrava obiettare al cammino; ma siamo andati avanti lo stesso fino alla fine”). Quindi la figura umana non è del tutto assente nella produzione di Riccardo Secchi, ma certamente non è centrale. Forse sarà questo il prossimo passo. “Per ora non ho ancora trovato il ‘come’. So solo che mi attira enormemente il lavoro di Francis Bacon. Trovo che i suoi corpi così martoriati (perfino tecnicamente: lui usava spugne e stracci per realizzare gli effetti voluti), rappresentati su sfondi coloratissimi e asettici rappresentino un invito anche per me. Poi. forse, potrà aprirsi la questione più importante: il volto. Non sappiamo se e come questo aspetto del seme artistico di Riccardo Secchi si svilupperà. Eventualmente ne daremo conto ai lettori di KOS in un prossimo numero.
Pubblicato su KOS n° 241, ottobre 2005, Milano
di Carlo Quarto
I semi sbocciano quando vogliono. Compreso il seme dell’ispirazione artistica. Certo, sbocciano solo se il terreno in cui sono stati piantati è fertile e amorevolmente irrigato, giudiziosamente concimato, fedelmente accudito; senza la pretesa che il fiore dell’arte germogli secondo le nostre previsioni o i comandi delle mode o delle urgenze commerciali, Riccardo Secchi esemplifica in modo lampante questa dinamica. Reggiano, classe 1954, si trasferisce con la famiglia (è lì che il seme è stato prodotto: il nonno era un artista e il padre, ufficialmente, falegname, ma il suo negozio era più un atelier che una falegnameria; i clienti erano più interessati alle inattese “statue”- ho davanti a me uno straordinario cesto di frutta in legno - che alle sedie) a Perugia, dove frequenta l’Accademia delle Belle Arti e specificamente il corso di pittura.
Non sono anni facili per un giovane che vuole imparare i segreti della creazione artistica (essa pure messa in discussione dal diluvio ideologico imperante nella stagione sessantottina). Fatto sta che il giovane Riccardo non trova nessuna soddisfazione e stimolo nella programmazione scolastica ufficiale: “Ci mettevano lì a copiare le modelle, senza spiegarci né il perché né dove si volesse arrivare”. Assieme a un compagno di studi che condivide la sua insoddisfazione e l’ansia di trovare punti di riferimento magisteriali seri, decide di andare a trovare il pittore William Congdon, che passava molti mesi in uno studio della vicina Assisi. Congdon (Bill per gli amici), artista di origini americane (nacque a Providence nel 1912), era stato uno dei protagonisti di quella straordinaria stagione pittorica dell’immediato post seconda guerra mondiale, che va sotto il nome di “action painting”; suoi amici e compagni di esposizione (nelle prestigiose gallerie di Peggy Guggenheim e Betty Parson) erano stati personaggi del calibro di Jackson Pollock e Mark Rothko. Dopo la conversione alla Chiesa cattolica (compiutasi proprio ad Assisi nella comunità della Pro Civitate Christiana), Congdon (di cui KOS si è occupato nel numero 119/120 del 1995), aveva continuato la sua instancabile ricerca del bello e del vero. Suoi soggetti erano sempre cose “reali” e realmente viste: città, campi, alberi, monumenti; l’adorata Assisi, il solitario eremo di Sublaco, le mete più esotiche dei suoi interminabili viaggi. Fino al pacificato approdo nella “bassa” milanese, dove fedele al suo realismo e al metodo pittorico proprio dell’action painting, ha realizzato per oltre un quindicennio fino alla morte nel 1998, una straordinaria stagione di capolavori.
Ma torniamo a Riccardo Secchi e al suo compagno di studi. Con una buona dose di faccia tosta che solo ai giovani è consentita (e che solo la larghezza d’animo dell’ormai più che maturo Congdon poteva apprezzare si presentano nello studio assisiate del grande artista e gli chiedono di aiutarli, di insegnar loro a dipingere. Con sé hanno qualche prova di disegno, frutto degli insegnamenti dell’Accademia. Suppongo che avessero portato quelli che ritenevano i migliori: almeno per poter fare una bella figura di fronte all’artista affermato. Il quale dice loro di buttare quei disegni e inizia pazientemente a proporre ai due giovanotti lo stesso apprendistato cui si era sottoposto lui. Niente orpelli tradizionalistici ma anche niente stupide fughe in avanti nell’allora molto coltivato campo dell’ideologia. Lo scopo del disegno non è l’analisi di quanto si vede, ma esattamente il contrario - la fissazione sulla carta degli elementi sintetici che la realtà offre. Perché la pittura (passo successivo al disegno) non è una fotografia debordante di dettagli; è la riproposizione sul pannello dell’immagine suscitata dalla realtà. E l’immagine è diversa dalla realtà perché tu, uomo e artista, della realtà cerchi il significato. Un significato che si esprime per forza in termini sintetici. Tutto ciò ha ricadute operative molto serie. I due studenti dell’Accademia si mettono a fare quanto a Congdon era stato indicato, negli anni Trenta, dal suo primo maestro di pittura: ritrarre una persona posta in controluce. Così, dice Congdon ai giovanotti, sei costretto a soprassedere sui particolari, che non
vedi, e a concentrarti sui contorni che definiscono il tutto, sulle masse e sui loro rapporti. Una volta Congdon porta lo studente di pittura nel suo studio di Subiaco, un ex eremo a strapiombo sulla valle dell’Amene: lo guida alla balaustra da cui si apre tutta la visione della vallata:”Vediamo un po’ quello che sta succedendo” dice, e poi lo riporta in studio: “Adesso dipingi quello che hai visto; poi lo farò anch’io”.
Il seme della pittura era ormai posto nell’animo di Riccardo Secchi. Ma doveva aspettare quasi trent’anni per fiorire. Finita l’Accademia, bisognava andare a lavorare (insegnamento dell’arte in scuole di vario ordine e grado, secondo quanto la faticosa burocrazia ministeriale consentiva): Congdon si era trasferito e le “lezioni” con lui non erano più possibili. In verità, ci fu per Secchi una breve stagione creativa. Non però, nel campo della pittura, ma in quello, più affine alle abilità manuali paterne, della scultura. Un amico sacerdote chiede all’artista neo diplomato di realizzare una via crucis in terracotta per un santuario a Castel Sant’Elia; Riccardo non è affatto spaventato di dover imparare una tecnica del tutto sconosciuta; del resto l’Umbria, che ormai è diventata la sua terra, è ricca di tradizioni in questo ambito, basti pensare alla città di Deruta, alle porte di Perugia, intenzionalmente nota per le sue ceramiche, oppure a Gualdo Tadino o Gubbio. Col consiglio di qualche vecchio artigiano, la tecnica della terra cotta e della sua decorazione è rapidamente appresa. La via crucis viene collocata nel posto stabilito. Seguono altre commesse simili per Brugherio, vicino a Milano, e nelle Marche, a Giulianova. Riccardo Secchi le realizza, ma poi dice “basta”.
Non è questa la sua strada. Il seme torna sotto terra e se son rose...
Un nuovo inizio
Se son rose fioriranno. La sbocciatura risale a un anno fa. Riccardo Secchi non se ne sa dare una spiegazione legata alla razionalistica logica della causa ed effetto. Ormai ha compiuto cinquant’anni; deve cambiare casa, il lavoro si è stabilizzato, le amicizie consolidate. Fatto sta che un giorno gli “viene voglia “ (usiamo questa espressione generica fino alla banalità per descrivere quella che pomposamente altri chiamano “ispirazione”) di dipingere. Cosa? Beh, non certo qualcosa di astratto (tanto per accodarsi all’andazzo più “in”), non certo qualcosa che serva a far bella mostra delle proprie abilità tecniche (è una velleità che può adescare un ventenne, non un uomo di cinquant’anni). Cosa, allora? La finestra; sì, la finestra della camera e quello che si intravede al di là di essa (Finestra 1). Riccardo Secchi - non dimentichiamo che ha alle spalle decenni di insegnamento di storia dell’arte - sa benissimo che si tratta di un soggetto “pericoloso”. La finestra è come un varco (come non pensare a Matisse o a Vermeer?), una misteriosa apertura che può provocare angoscia. O l’entusiasmo della scoperta. Per Secchi è senza dubbio questa seconda la strada aperta dalla “finestra “, tanto che da essa il suo occhio indagatore uscirà per scoprire (e riportare sul quadro) ciò che via via incontrerà. Inizia la nuova fase di creatività artistica. Oltre al “cosa” Riccardo Secchi ha il problema del “come”. Anche qui riaffiorano gli insegnamenti di Bill Congdon (del quale ad agosto proprio Assisi ha ospitato una mostra e non per nulla un giornale locale ha definito Secchi l’erede attuale del grande americano). Congdon, fedele alla pittura “di azione”, operava in un modo molto preciso; e così Secchi: niente tela (troppo elastica, non pone sufficiente resistenza al gesto del pittore ed è incapace di ricevere troppa materia pittorica), ma pannello di legno. Pannello preventivamente colorato di nero:è come l’emblema del nulla dal quale affiora l’immagine e un po’ di nero, nell’immagine, rimane sempre, quasi a ricordare che l’artista è sì creatore, ma non della stessa pasta del Creatore che, unico, sa far passare dal nulla all’essere. Niente pennelli (rischiano di fare perdere nel labirinto dell’analisi particolareggiata), ma la spatola, con la quale la materia pittorica può essere applicata in masse più ampie e sintetiche. Poi chiodi, pettini, spugne e bastoncini per intervenire sul pigmento a vivificarlo di quei particolari necessari e non contraddittori con l’insieme.
Basta che Secchi esca di casa e i possibili “soggetti”per i suoi quadri gli vengono incontro a decine. Ovviamente non tutti saranno ripresi; solo quelli che suscitano un qualche sussulto, offrono uno spunto particolarmente vitale. A dieci metri dalla sua abitazione, sulla curva di una delle strade panoramiche che contornano Perugia, si apre l’ampia pianura che separa il capoluogo umbro doli monte Subasio, sulla cui pendice - laddove la costa “frange /più sua rattezza” (Paradiso XI, vv. 49- 50) - sorge Assisi. Eccola allora sul pannello, l’imponente mole del monte; la piana che lo separa dalla casa di Secchi è ora florida di vegetazione primaverile (Subasio), ora acquosa per la neve che si scioglie (Subasio blu), ora attuffata nella calma notturna illuminata da una placida luna (Subasio con luna 2). Se poi da quella stessa curva ti volgi indietro verso la città, ti trovi di fronte la mole del complesso benedettino di San Pietro; eccolo in San Pietro (PG), col suo straordinario campanile quasi assorbito nel verde degli alberi del viale. Ovviamente la vicina Assisi non poteva non esercitare una particolare attrazione su chi vi abita a pochissima distanza; in San Rufino e Santa Chiara, e San Rufino, l’influenza di Congdon (che alla patria di San Francesco aveva dedicato importanti capolavori) è molto evidente nella scelta del “taglio” della visione e nella misteriosa precarietà degli edifici. Ma anche spazi più ridotti e minuti diventano soggetti per un quadro.
Particolarmente interessante mi pare Ulivi in campo giallo, dove Secchi, abbandonato per un po’ l’amato paesaggio umbro, si paragona con una Puglia solare, accecante, visitata in un’estate di vacanza.
Chiedo a Secchi se le sue opere siano frutto di un lavoro di memoria. Mi risponde che normalmente si avvale anche del supporto della fotografia. “Avendo in auto una macchina fotografica, qualora incontro - di solito del tutto casualmente - qualcosa che colpisce il mio occhio, mi fermo e lo fotografo. Poi, in studio, riguardo la fotografia e spesso ne nasce il quadro”. Ovviamente non si tratta di una pura trasposizione della foto sul pannello; la sfida dell’arte è che il quadro sia più “autentico” di quanto la retina registra e la pellicola riporta. Due opere mi sembrano rendere con evidenza questa dinamica. La prima è un campo di grano di grandi dimensioni (Campo di grano con croce). Quando guardi il quadro, di un giallo maturo che sa già di pane, ti accorgi immediatamente di una strana croce nel bel mezzo del campo. Guardando la foto non l’avevo notata; non era certo centrale nella visione. Eppure l’occhio di Secchi proprio da quella croce (è tradizione che i contadini mettano nei campi di grano croci di stoppie per implorare raccolti fecondi; un tempo i sacerdoti passavano di campo in campo a benedirle) era stato attratto. Proprio quella croce, che la foto registrava asetticamente, diventa nel quadro il punto enigmaticamente sintetico. Esempio analogo è Torre rosa. Guardo prima bene la fotografia: una valletta con i resti rosa mattone di una vecchia torre postale; sullo sfondo le pendici di Perugia. Nel quadro, invece, la torre è diventata di un rosa squillante, tenerissimo, primaverile. È lei che fa da fulcro a tutta la composizione; è lei (un rudere morto trasformato in vitale albergo dove, chissà, Secchi avrà fatto qualche bella cena con amici) l’emblema della vitalità umana in mezzo a una valle altrimenti vuota. Recentissimamente (almeno per quanto riguarda il momento in cui scrivo questa nota; le sorprese del futuro sono imprevedibili) l’interesse di Riccardo Secchi - e non poteva essere diversamente, data la stagione primaverile appena terminata e l’estate in piena esplosione si è appuntato sui fiori: un oleandro esplosivamente carico di vermigli boccioli (Oleandro rosso) e uno sgargiante sfarfallio di ginestre giallissime sullo sfondo del cupo verde dei loro rami (Ginestre). In queste composizioni è particolarmente evidente il lavorio di incisione sul pigmento, teso a rendere il moto e la profondità dell’oggetto rappresentato, che la pura spatolata rischierebbe di schiacciare in una bidimensionalità astratta.
E adesso?
Chiedo a Riccardo Secchi quali siano i suoi progetti per il futuro. Anzitutto vuol sottolineare che è già molto contento che la sua “vena” artistica sia ripresa e, nel giro di un solo anno, abbia prodotto risultati che giudica importanti: Ovviamente pensa agli esiti personali, ma noi dobbiamo aggiungere che tra i risultati vanno annoverate due mostre, una a Firenze in primavera e una estiva nella sua Perugia, e l’interesse di qualche acquirente. “Di progetti - aggiunge - non ne ho. Certamente aspetto il momento di sentirmi pronto ad affrontare il corpo umano”. Congdon, salvo rarissime eccezioni all’inizio della sua carriera, non lo aveva mai fatto. Certo, omini stilizzati si trovano in parecchi dei suoi dipinti, così come quelli di Secchi; basta guardare Roma, 6 aprile 2005, (il professor Secchi, in quella data, aveva accompagnato alcuni suoi alunni a rendere omaggio alla salma di Giovanni Paolo II e il suo occhio ha colto la fiumana brulicante del popolo in attesa di entrare nel bianco edificio della basilica vaticana) oppure Via Crucis (sempre nelle vesti di professore, Secchi aveva partecipato con alcuni ragazzi all’annuale via crucis sulle pendici romagnole di San Leo. “A un certo punto, ricorda, si parò davanti alla multicolore massa dei ragazzi una specie di nebbiolina fosca che sembrava obiettare al cammino; ma siamo andati avanti lo stesso fino alla fine”). Quindi la figura umana non è del tutto assente nella produzione di Riccardo Secchi, ma certamente non è centrale. Forse sarà questo il prossimo passo. “Per ora non ho ancora trovato il ‘come’. So solo che mi attira enormemente il lavoro di Francis Bacon. Trovo che i suoi corpi così martoriati (perfino tecnicamente: lui usava spugne e stracci per realizzare gli effetti voluti), rappresentati su sfondi coloratissimi e asettici rappresentino un invito anche per me. Poi. forse, potrà aprirsi la questione più importante: il volto. Non sappiamo se e come questo aspetto del seme artistico di Riccardo Secchi si svilupperà. Eventualmente ne daremo conto ai lettori di KOS in un prossimo numero.
Pubblicato su KOS n° 241, ottobre 2005, Milano