L'accadere delle cose
di Lawrence Swift
La pittura di Riccardo Secchi assomiglia a Perugia. Non nel senso del soggetto delle sue creazioni, ma nel modo d’essere. Si tratta di una pittura discreta, solida, densa di luci e ombre, umile e, nello stesso tempo, orgogliosa, con un tratto deciso e, parimenti, dolce. Nessuna voglia di stupire, di sedurre, di colpire, di affascinare, e insieme, una certezza di se stesso e del proprio valore. E su tutto come un’obbedienza ad una necessità interiore di creare, di rispondere a un invito, a un dono. Senza fusioni, senza annullamenti: un “io” davanti al “tu” della realtà e dell’immagine.
Secchi ha un amore da artigiano per le materie, per i colori, distinti, solidi, afferrati nella loro densità e nel loro cantare armonico, obbediente ad un ordine sinfonico, che esalta l’unicità, senza negare l’insieme. Anzi, si afferma proprio in questa partecipazione.
E, su tutto, una luce che accarezza le cose, le invita, dà loro rilievo, senza inchiodarle in una distanza incolmabile, facendone sentire la giustizia, la necessità, l’opportunità. Facendone sentire la compagnia, la partecipazione ad un’avventura comune.
I suoi gialli così intensi, i suoi verdi così freschi d’inizi, gli azzurri che vanno verso l’alto e, nello stesso tempo segnano di nostalgia i tetti, ancor caldi di sole, di fornace e di lotte dure con le stagioni.
Sono colori senza irritazioni, tenaci, come la terra dei suoi campi e dei colli azzurrati del Subasio e dei monti che coronano Perugia, solita al rischio di vivere, al salire e allo scendere.
E i verdi argentati degli ulivi, e quelli più scuri dei lecci. E poi i bianchi, che conservano l’incanto dell’infanzia. In un movimento continuo, senza frenesie, senza accelerazioni che bloccherebbero la continuità di una pulsazione vitale. Secondo un ritmo umano, di sistole e diastole. Profondamente umano. Certo e teso in un cammino, e col passo di chi è avvezzo a camminare. E quei suoi fiori così pieni di buio e di luce, e di contrasti. E, soprattutto, il suo senso dello spazio, sempre aperto, sempre dominato da un grande orizzonte, anche negli interni più scuri, in cui si sente la presenza di una ”profondità”, di un “cielo”. Quella sua capacità di tenere insieme gli angoli più improbabili, le inclinazione prospettiche più difficili. Come nei suoi tetti e nelle sue vie. E le cose guardate dall’alto e dal basso – come Perugia –, sempre sulle scale.
Le opere di Secchi sono piene del senso dell’accadere delle cose. Che era più marcato di vuoti nelle opere del primo periodo, ma che si sente, come presenza incombente, nel suo uso della spatola e delle punte.
Riccardo Secchi concepisce l’immagine come un gesto, come parola di un dialogo con la realtà e con lo spettatore. Una parola che non vuole chiudere, che non ha la pretesa di definire senza margini, senza appelli, ma apre, invita a completare un percorso, a partecipare ad una azione, ad un “a fondo” davanti alla prima meraviglia destata dall’esserci di una cosa.
Con uno sguardo che non è mai da predatore, mai pretenzioso o violento. Uno sguardo innanzitutto contento che qualcosa ci sia. Come l’amico che tutti si vorrebbe avere. Uno sguardo in cui si sente un fondo di gratitudine, di ammirazione quasi paterna per questi quadri-figli che gli crescono tra le mani. E che affida fiducioso agli occhi di altri, sperando di riceverne un approfondimento per sé, attraverso il riflesso di altri occhi.
Gli siamo grati di questo suo sguardo e della sua mano, che invitano a non divagare, a tenere gli occhi sulla densità singolare delle cose.
Facciamo voto che un po’ della sua “fiducia” e della sua intensità diventino parte del nostro modo di accostarci alla realtà, godendo della sua prossimità, della sua partecipazione, della compagnia delle cose e degli uomini alla nostra vicenda personale, così desiderosa d’amicizie.
di Lawrence Swift
La pittura di Riccardo Secchi assomiglia a Perugia. Non nel senso del soggetto delle sue creazioni, ma nel modo d’essere. Si tratta di una pittura discreta, solida, densa di luci e ombre, umile e, nello stesso tempo, orgogliosa, con un tratto deciso e, parimenti, dolce. Nessuna voglia di stupire, di sedurre, di colpire, di affascinare, e insieme, una certezza di se stesso e del proprio valore. E su tutto come un’obbedienza ad una necessità interiore di creare, di rispondere a un invito, a un dono. Senza fusioni, senza annullamenti: un “io” davanti al “tu” della realtà e dell’immagine.
Secchi ha un amore da artigiano per le materie, per i colori, distinti, solidi, afferrati nella loro densità e nel loro cantare armonico, obbediente ad un ordine sinfonico, che esalta l’unicità, senza negare l’insieme. Anzi, si afferma proprio in questa partecipazione.
E, su tutto, una luce che accarezza le cose, le invita, dà loro rilievo, senza inchiodarle in una distanza incolmabile, facendone sentire la giustizia, la necessità, l’opportunità. Facendone sentire la compagnia, la partecipazione ad un’avventura comune.
I suoi gialli così intensi, i suoi verdi così freschi d’inizi, gli azzurri che vanno verso l’alto e, nello stesso tempo segnano di nostalgia i tetti, ancor caldi di sole, di fornace e di lotte dure con le stagioni.
Sono colori senza irritazioni, tenaci, come la terra dei suoi campi e dei colli azzurrati del Subasio e dei monti che coronano Perugia, solita al rischio di vivere, al salire e allo scendere.
E i verdi argentati degli ulivi, e quelli più scuri dei lecci. E poi i bianchi, che conservano l’incanto dell’infanzia. In un movimento continuo, senza frenesie, senza accelerazioni che bloccherebbero la continuità di una pulsazione vitale. Secondo un ritmo umano, di sistole e diastole. Profondamente umano. Certo e teso in un cammino, e col passo di chi è avvezzo a camminare. E quei suoi fiori così pieni di buio e di luce, e di contrasti. E, soprattutto, il suo senso dello spazio, sempre aperto, sempre dominato da un grande orizzonte, anche negli interni più scuri, in cui si sente la presenza di una ”profondità”, di un “cielo”. Quella sua capacità di tenere insieme gli angoli più improbabili, le inclinazione prospettiche più difficili. Come nei suoi tetti e nelle sue vie. E le cose guardate dall’alto e dal basso – come Perugia –, sempre sulle scale.
Le opere di Secchi sono piene del senso dell’accadere delle cose. Che era più marcato di vuoti nelle opere del primo periodo, ma che si sente, come presenza incombente, nel suo uso della spatola e delle punte.
Riccardo Secchi concepisce l’immagine come un gesto, come parola di un dialogo con la realtà e con lo spettatore. Una parola che non vuole chiudere, che non ha la pretesa di definire senza margini, senza appelli, ma apre, invita a completare un percorso, a partecipare ad una azione, ad un “a fondo” davanti alla prima meraviglia destata dall’esserci di una cosa.
Con uno sguardo che non è mai da predatore, mai pretenzioso o violento. Uno sguardo innanzitutto contento che qualcosa ci sia. Come l’amico che tutti si vorrebbe avere. Uno sguardo in cui si sente un fondo di gratitudine, di ammirazione quasi paterna per questi quadri-figli che gli crescono tra le mani. E che affida fiducioso agli occhi di altri, sperando di riceverne un approfondimento per sé, attraverso il riflesso di altri occhi.
Gli siamo grati di questo suo sguardo e della sua mano, che invitano a non divagare, a tenere gli occhi sulla densità singolare delle cose.
Facciamo voto che un po’ della sua “fiducia” e della sua intensità diventino parte del nostro modo di accostarci alla realtà, godendo della sua prossimità, della sua partecipazione, della compagnia delle cose e degli uomini alla nostra vicenda personale, così desiderosa d’amicizie.