MEMORIE SILENTI
di Antonio Pazzaglia
Da un articolo di giornale traggo un citazione del poliedrico economista francese Jacques Attali: “… il mondo non si guarda, si ode. Non si legge, si ascolta.” Perentoria la domanda che mi incalza: ma allora che cosa ci sto a fare io di fronte al mio computer, in un triste pomeriggio di pioggia estiva, intento a costruire un testo dedicato alle opere pittoriche di Paolo Bellegrandi e Riccardo Secchi?
La mia presunzione è così esagerata?
La risposta non è automatica, ma potrei ribattere che nella vita ognuno ha dei compiti da svolgere e dei problemi da risolvere. Ora il mio dovere è quello di ordinare in questa rappresentazione di pagina bianca, dei pensieri costruiti attorno alle immagini dei due artisti e alle occasionali presenze che, nella pratica di ricerca, mi accompagnano. Una di queste è proprio la citazione testé evocata; e allora comincio con essa.
È chiaro l’intento dell’autore che non vuole con queste due frasette, invitare a non guardare e a non leggere; bensì invita tutti noi a toglierci gli occhiali da sole di moda anche quando il sole non c’è e gli auricolari dalle orecchie anche quando la pratica non è l’ascolto, per vedere e ascoltare con gli occhi e le orecchie della nostra sensibilità di umani prima che, questa sensibilità, si esaurisca irrimediabilmente. Da un secolo a questa parte la nostra civiltà ha una unica colonna sonora che accompagna il tanto agognato progresso: il rumore. Il progresso fa rumore e chiasso ridondante, è “boom economico”, anche se oggi la deflagrazione accompagna una globalizzata recessione; nei negozi persistono insensate musiche, i telefoni gracchiano suoni imprevedibili, le città sono affollate di rombi automobilistici, clacson e sirene e, per non sentirli, molti li coprono con musiche assordanti sparate a due passi dal cervello: nelle orecchie. Ma il rumore non è solo quello che si sente ma anche quello che si vede. Nella nostra civiltà delle immagini, le stesse ci posseggono: la loro proliferazione azzera le nostre capacità critiche, non ci danno il tempo di meditare, di riflettere perché le immagini non riflettono sé stesse, ma ne rimbalzano subito delle altre.
E qual è il risultato di tutto ciò? Il risultato è che siamo circondati da persone che per farsi sentire gridano, sbraitano, urlano, strillano e non è importante quello che dicono, l’importante è solo farsi sentire, farsi vedere; ognuno di loro si prende la licenza di aggiungere chiasso al chiasso invadendo tutti i mezzi di comunicazione con il risultato di vanificarne la specifica funzione sociale e culturale.
“Memorie silenti” è, dal mio punto di vista, l’occasione per rivalutare e apprezzare il silenzio. Già il luogo dove le opere di questi due artisti di adozione umbra, sono esposte, questo bel museo della città di Cannara, è un’isola del silenzio. Racchiuso all’interno delle robuste mura di un ex convento, il silenzio accompagna il visitatore nelle numerose stanze tra reperti archeologici provenienti dagli scavi di Urvinum Hortense e opere pittoriche e scultoree testimoni della religiosità dei cannaresi del passato. In questo contesto i dipinti di Bellegrandi e Secchi aprono finestre di metafisica realtà che proiettano l’ospite in un mondo di apparente semplicità. L’occhio del visitatore si affaccia a queste aperture su paesaggi infiniti colorati di silenzio; solo apparentemente sono disabitati perché l’unica pre-senza è proprio colui che guarda. Questi paesaggi che, anche se ispirati a luoghi reali amati dai due artisti, perdono la loro specificità per assumere un carattere di universalità, con una certa plasticità ad adattarsi alle visioni altrui, sono luoghi da percorrere con gli occhi della mente, luoghi, per riprendere la citazione in incipit, da udire e ascoltare.
Chiaramente non parlo del silenzio fisico che, come detto prima, è già presente nel sito espositivo, ma degli spazi silenziosi che cuori e menti conservano con fatica, pause musicali che danno senso alla composizione.
I due artisti affrontano questo tema percorrendo strade differenti ma assolutamente complementari: Bellegrandi sorvola, con i suoi orizzonti, spazi volti all’infinito dove le presenze del paesaggio: monti, case, strade, perdono specificità per acquisire muta fisicità, materialità organica alla prospettiva, luoghi di sosta per una luce bruna, mite, priva d’origine. Secchi invece va a scavare realtà più vicine al nostro vivere ma distrattamente dimenticate: boschi, fabbriche dismesse e abbandonate, paesaggi, pure lui, delimitati dal contorno di un lago o da teorie di monti ondeggianti sono i soggetti privilegiati rappresentati con la brutalità della tecnica della spatola e del graffio che si trasforma nell’insieme in un’armonica, piacevolmente invasiva e misteriosa critto-scrittura pittorica.
Il primo alza lo sguardo verso orizzonti dove il silenzio impone una tregua, il secondo si addentra nella realtà calpestabile per estrarre la quiete conservata negli elementi. Le due visioni si corrispondono in un dialogo di interiore nostalgia che arricchisce le proprie e le altrui ricerche di punti di riflessione nei confronti di questa nostra realtà fondata solo sul soddisfacimento dei bisogni materiali messi a fondamento di un sistema che ci vogliono far credere unico e insostituibile; ma questo è un altro discorso e l’ambito è inadeguato.
di Antonio Pazzaglia
Da un articolo di giornale traggo un citazione del poliedrico economista francese Jacques Attali: “… il mondo non si guarda, si ode. Non si legge, si ascolta.” Perentoria la domanda che mi incalza: ma allora che cosa ci sto a fare io di fronte al mio computer, in un triste pomeriggio di pioggia estiva, intento a costruire un testo dedicato alle opere pittoriche di Paolo Bellegrandi e Riccardo Secchi?
La mia presunzione è così esagerata?
La risposta non è automatica, ma potrei ribattere che nella vita ognuno ha dei compiti da svolgere e dei problemi da risolvere. Ora il mio dovere è quello di ordinare in questa rappresentazione di pagina bianca, dei pensieri costruiti attorno alle immagini dei due artisti e alle occasionali presenze che, nella pratica di ricerca, mi accompagnano. Una di queste è proprio la citazione testé evocata; e allora comincio con essa.
È chiaro l’intento dell’autore che non vuole con queste due frasette, invitare a non guardare e a non leggere; bensì invita tutti noi a toglierci gli occhiali da sole di moda anche quando il sole non c’è e gli auricolari dalle orecchie anche quando la pratica non è l’ascolto, per vedere e ascoltare con gli occhi e le orecchie della nostra sensibilità di umani prima che, questa sensibilità, si esaurisca irrimediabilmente. Da un secolo a questa parte la nostra civiltà ha una unica colonna sonora che accompagna il tanto agognato progresso: il rumore. Il progresso fa rumore e chiasso ridondante, è “boom economico”, anche se oggi la deflagrazione accompagna una globalizzata recessione; nei negozi persistono insensate musiche, i telefoni gracchiano suoni imprevedibili, le città sono affollate di rombi automobilistici, clacson e sirene e, per non sentirli, molti li coprono con musiche assordanti sparate a due passi dal cervello: nelle orecchie. Ma il rumore non è solo quello che si sente ma anche quello che si vede. Nella nostra civiltà delle immagini, le stesse ci posseggono: la loro proliferazione azzera le nostre capacità critiche, non ci danno il tempo di meditare, di riflettere perché le immagini non riflettono sé stesse, ma ne rimbalzano subito delle altre.
E qual è il risultato di tutto ciò? Il risultato è che siamo circondati da persone che per farsi sentire gridano, sbraitano, urlano, strillano e non è importante quello che dicono, l’importante è solo farsi sentire, farsi vedere; ognuno di loro si prende la licenza di aggiungere chiasso al chiasso invadendo tutti i mezzi di comunicazione con il risultato di vanificarne la specifica funzione sociale e culturale.
“Memorie silenti” è, dal mio punto di vista, l’occasione per rivalutare e apprezzare il silenzio. Già il luogo dove le opere di questi due artisti di adozione umbra, sono esposte, questo bel museo della città di Cannara, è un’isola del silenzio. Racchiuso all’interno delle robuste mura di un ex convento, il silenzio accompagna il visitatore nelle numerose stanze tra reperti archeologici provenienti dagli scavi di Urvinum Hortense e opere pittoriche e scultoree testimoni della religiosità dei cannaresi del passato. In questo contesto i dipinti di Bellegrandi e Secchi aprono finestre di metafisica realtà che proiettano l’ospite in un mondo di apparente semplicità. L’occhio del visitatore si affaccia a queste aperture su paesaggi infiniti colorati di silenzio; solo apparentemente sono disabitati perché l’unica pre-senza è proprio colui che guarda. Questi paesaggi che, anche se ispirati a luoghi reali amati dai due artisti, perdono la loro specificità per assumere un carattere di universalità, con una certa plasticità ad adattarsi alle visioni altrui, sono luoghi da percorrere con gli occhi della mente, luoghi, per riprendere la citazione in incipit, da udire e ascoltare.
Chiaramente non parlo del silenzio fisico che, come detto prima, è già presente nel sito espositivo, ma degli spazi silenziosi che cuori e menti conservano con fatica, pause musicali che danno senso alla composizione.
I due artisti affrontano questo tema percorrendo strade differenti ma assolutamente complementari: Bellegrandi sorvola, con i suoi orizzonti, spazi volti all’infinito dove le presenze del paesaggio: monti, case, strade, perdono specificità per acquisire muta fisicità, materialità organica alla prospettiva, luoghi di sosta per una luce bruna, mite, priva d’origine. Secchi invece va a scavare realtà più vicine al nostro vivere ma distrattamente dimenticate: boschi, fabbriche dismesse e abbandonate, paesaggi, pure lui, delimitati dal contorno di un lago o da teorie di monti ondeggianti sono i soggetti privilegiati rappresentati con la brutalità della tecnica della spatola e del graffio che si trasforma nell’insieme in un’armonica, piacevolmente invasiva e misteriosa critto-scrittura pittorica.
Il primo alza lo sguardo verso orizzonti dove il silenzio impone una tregua, il secondo si addentra nella realtà calpestabile per estrarre la quiete conservata negli elementi. Le due visioni si corrispondono in un dialogo di interiore nostalgia che arricchisce le proprie e le altrui ricerche di punti di riflessione nei confronti di questa nostra realtà fondata solo sul soddisfacimento dei bisogni materiali messi a fondamento di un sistema che ci vogliono far credere unico e insostituibile; ma questo è un altro discorso e l’ambito è inadeguato.