Omaggio a William Congdon
Assisi 21 marzo 2015
di Pigi Colognesi
L’omaggio ad un grande pittore è di solito conferito per ragioni squisitamente legate alla sua attività artistica. Il compito del critico è esattamente quello di analizzarne l’opera, di scoprirne i tratti essenziali e le evoluzioni nel tempo, di indagarne affinità e divergenze rispetto al contesto, di coglierne quel “quid” che la rende unica e che costituisce il lascito perenne che quell’opera consegna al futuro. È un lavoro che, per quanto riguarda l’opera di William Congdon, è iniziato fin dai tempi del suo strepitoso successo come uno dei più promettenti rappresentanti dell’action painting o, se si vuole, della cosiddetta «Scuola di New York» o, per usare un’altra espressione cara ai critici, dell’espressionismo astratto. Anche se nel, suo caso, il sostantivo può essere accettato, l’aggettivo no. Congdon non è mai stato «astratto», ma ha sempre dipinto ciò che i suoi occhi vedevano; che si trattasse degli orrori della guerra cui ha partecipato in qualità di autista d’ambulanza o dei grattacieli della Grande Mela ove si è trasferito alla fine degli anni Quaranta, di una delle innumerevoli mete del suo inesausto pellegrinare per il mondo – dall’Africa all’India, dall’America latina alle più note città d’arte italiane, prime fra tutte Venezia e Assisi – oppure della bassa milanese dei cui campi negli ultimi anni della vita ha cantato la continua trasformazione dovuta al lento mutare dei giorni ed alla paziente fatica umana. L’attenzione critica venne poi meno quando Congdon, staccatosi definitivamente dalla sua patria, si trasferì in Italia e intraprese un personalissimo cammino di fede cattolica con evidenti ricadute sulla sua arte; un cammino dapprima guardato con una certa curiosità – un po’ come quella che si riserva ad un animale esotico – e poi sostanzialmente dimenticato. Solo nei due ultimi decenni della vita di Congdon la critica ha ripreso ad interessarsi della sua opera (anche perché essa, proprio in quegli anni della vecchiaia, ha mostrato sorprendenti capacità di rinnovamento, di invenzione di forme e di novità di stile), ma molto resta ancora da fare ed è con gratitudine che si guarda al lavoro che la Fondazione a lui intitolata promuove con tenacia iniziative in questa direzione.
Ma io non sono un critico d’arte, per cui il mio «omaggio a William Congdon» non può essere, stasera, quello di un sia pur piccolo contributo allo svelamento di aspetti importanti della sua produzione.
Altro tipo di omaggio è quello che può offrire chi abbia fatto dell’opera di un artista il proprio modello, vi abbia riconosciuto un maestro o addirittura un padre. È il contenuto stesso della mostra che stiamo per inaugurare e Riccardo Secchi è ben più titolato di me a parlarne.
L’unico omaggio che posso quindi offrire a Congdon è quello di un amico che ricorda a chi benevolmente lo ascolta alcuni tratti dell’amicizia vissuta e ciò che da essi ha imparato.
L’esplosione e il dado
Di William Congdon ho sentito parlare per la prima volta negli anni Settanta, nell’ambiente di Comunione e Liberazione; avevo sfogliato qualche articolo su di lui e tentato – senza successo - di leggere uno strano libro intitolato Esistenza viaggio in cui erano raccolti suoi pensieri in merito al lavoro artistico e a ciò che in lui sempre lo precedeva: il guardare. Ammetto di non averci capito quasi niente e di non essermene neppure rammaricato più di tanto: astrusità d’artista, pensavo.
Le cose cambiarono decisamente quando andai ad abitare in una casa del Memores Domini alle cui pareti c’erano due quadri di Congdon. Il primo era un Winter dalla tonalità grigia, che ho imparato a guardare con attenzione perché si trovava nella sala in cui pregavamo e passavamo le serate, magari ascoltando musica insieme (in quelle serate ho, tra l’altro, imparato ad apprezzare la musica di Stravinskij, legato a Congdon da reciproca stima, che nella sua ricchezza timbrica e ritmica ha molte somiglianze con la tavolozza del nostro pittore). Ma è stato il secondo quadro – era appeso in corridoio - a diventarmi compagno e, in qualche modo ad invogliarmi ad approfondire. Si tratta del piccolo e potentissimo New York explosion, uno dei capolavori del primo periodo congdoniano. Sullo sfondo di un reticolo confuso di strade e palazzi, visti dall’alto, è scesa – o risalita dal profondo? – una macchia nera che allunga i suoi tentacoli mortali sul groviglio della più grande e vivace metropoli del mondo. Certo, è una denuncia della disumanizzazione prodotta dalla incombente civiltà delle macchine; è il grido di un giovane «provinciale» (Congdon è nato nella dislocata Providence, capitale del piccolo stato del Rhode Island) a disagio nell’anonimato metropolitano. Ma è anche, quella macchia nera, incomparabile immagine di ogni disagio esistenziale, di ogni domanda irrisolta – e chi non ne ha a 25 anni, come allora ne avevo io? -, di ogni turbamento. Quel buco nero – fratello della voragine del Colosseo o dello scoglio frantumato di Santorini che Congdon avrebbe dipinto negli anni successivi – è l’inconscio ferito, è l’angoscia che attanaglia e, nel contempo è la speranza che un qualche fattore imprevedibile possa sopraggiungere a far esplodere il meccanismo perverso della città tentacolare e aprire finalmente l’orizzonte su un paesaggio pulito e pacificato. Con quest’ansia speranzosa guardavo, tutte le mattine uscendo di casa e tutte le sere ritornandovi, il piccolo Explosion.
Poi ebbi l’occasione di conoscere personalmente il pittore americano e cominciai a frequentarlo con una certa assiduità.
Allora – siamo nella prima metà degli anni Ottanta - lavoravo alla redazione della rivista mensile di CL. Per le festività natalizie eravamo soliti stampare un manifesto che aiutasse la memoria della solennità imminente. Un anno decidemmo che l’immagine sarebbe stata un quadro di Congdon e la frase «Lui è qui». Non scegliemmo uno dei quadri a soggetto religioso - che pure Congdon, approdato alla fede nel 1959, aveva dipinto -, ma un particolare di Giallo con blu, uno dei meravigliosi quadri ad ampie campiture cromatiche che caratterizzavano la sua produzione di quegli anni nella Bassa milanese. In questa tavola, il cielo - di un azzurro dolcissimo e denso – appare miracolosamente sprofondato in un campo ed è quindi tutto circondato da giallissimo splendore di grano; ci sembrava una bella immagine, adatta a rappresentare il miracolo natalizio dell’incarnazione: il cielo che entra inaspettatamente nella terra degli uomini. La scritta a fianco decidemmo di farla in bianco su un fondo verde petrolio. A me l’esito visivo sembrava molto bello; ma quel manifesto non piacque; ricordo anzi il disprezzo con cui un amico, guardando quell’insieme dominato dal giallo e dal verde petrolio mi chiese se per caso avevamo deciso di fare la pubblicità al dado Knorr!
Ho capito allora quanto fosse non scontato apprezzare l’arte di Congdon. A me piaceva perché avevo cominciato a frequentarlo a discutere con lui di questo o quel quadro, a fermarmi in silenzio di fronte ad una tavola in attesa che essa mi svelasse qualcosa di più del fascino che pur esercitava di schianto su di me. Mi piaceva perché cominciavo anche ad approfondire – usando quel poco che allora era disponibile - le caratteristiche della sua pittura e a conoscere più in dettaglio la sua storia personale. Ma a chi si trova impreparato di fronte ad una sua opera – per di più nella versione riprodotta fotograficamente che, per quanta cura ci si metta, non riesce a rendere tutto lo spessore della pasta colorata, a ridare l’esperienza che si fa guardando l’originale dal vivo e scoprendo che basta spostarsi di un passo che perché la luce colpisca diversamente e metta in rilievo linee, solchi e persino colori che prima non si erano visti –, a chi è impreparato può accadere di non cogliere nulla, di non essere sollecitati in nessun modo. Occorre quella che Congdon chiamava «educazione dell’occhio». Essa è necessaria - l’avrei capito proprio guardando insieme a lui – anche per la pittura più «facile»; facile perché ha un contenuto visivo evidente (mentre di certi suoi quadri non si capisce a prima vista che cosa rappresentino) o facile perché universalmente nota ed apprezzata; e qui il rischio è quello di renderle un omaggio assolutamente ovvio ed estrinseco alla propria esperienza visiva.
Occhio di turisto
Certamente l’amicizia con Congdon che ho coltivato in quegli anni è stata la più grande educazione che il mio occhio abbia mai avuto. Di solito ci vedevamo nel suo piccolo appartamento situato nel cortile del monastero benedettino detto della Cascinazza, nella frazione Gudo Gambaredo del comune di Buccinasco nella Bassa milanese. Per chi non conoscesse quei luoghi è necessario farne una sommaria descrizione. Prima di tutto il terreno è assolutamente, irrimediabilmente piatto; non si vede alcun sommovimento, nessun innalzamento né avvallamento. Solo nelle – non numerose – giornate di cielo terso si possono di lontano scorgere, a nord, la catena delle Alpi e, a sud, la sagoma degli Appennini. Questa piattezza – che Congdon definiva, lui che aveva visitato i siti più mirabili del mondo, un brutto buco – è però estremamente fertile. A partire dal lavorio dei monaci – la cistercense Chiaravalle è a pochi chilometri da Gudo – gli acquitrini malsani della bassa sono stati trasformati in campi fecondi, ricchi di foraggio (le celebri marcite), di grano e di riso. Campi ordinatamente attraversati dalle strade necessarie ai contadini e, soprattutto, dai fossi adibiti all’irrigazione. Quasi assenti gli alberi: qualche filare di robinie lungo i fossi e poco altro sparso qua e là. D’estate la Bassa è rigogliosa non solo dei frutti della terra, ma anche di miriadi di insetti, soprattutto – data la ricchezza di acqua – di implacabili zanzare. Ma il periodo più caratteristico e strano per chi non vi abbia mai abitato è l’inverno: cala impenetrabile la nebbia che nasconde ogni cosa a distanza di pochi passi. Per un pittore dagli occhi perennemente assetati di immagini è uno shock: non vede nulla. Eppure il Bill – mi sia consentito di usare d’ora in poi questo modulo espressivo tipicamente milanese – ha affrontato coraggiosamente anche questa estrema povertà; scoprendo da un lato l’infinita ricchezza cromatica che sta dentro l’apparente grigiore della nebbia e, dall’altro, cogliendone l’acuto aspetto metaforico: un velo che, mentre lo nasconde, rimanda a qualcosa che gli sta dietro. È in fondo, la dinamica di ogni immagine artistica.
La casetta dove Bill abitava era a due piani e lui occupava il secondo; dal cortile si saliva una scala e poi si entrava direttamente nello studio; la piccola cucina era ricavata in un bugigattolo di fronte alla porta d’ingresso. Due gli unici arredi dello studio. Una grande scrivania (con la luce alle spalle), seduto alla quale passava tutte le ore non dedicate alla pittura: lettura e, soprattutto, scrittura. Bill scriveva spessissimo: pagine di diario, lettere, riflessioni, appunti di meditazioni, testi di conferenze; la sua grafia ampia, rotonda ha vergato migliaia di pagine: una miniera che ancora attende di essere adeguatamente scavata. Altro arredo il letto: una semplice rete con materasso, lenzuola e coperte; nient’altro. All’estremità dello studio opposta all’ingresso si apriva un corridoio: a sinistra una parete arredata con delle piccole mensole su cui appoggiava ad asciugare i quadri appena dipinti; a destra un’infilata di finestre che illuminavano pienamente quei quadri. In fondo al corridoio la porta che introduceva allo studio. Sotto un lucernario che dava luce dall’alto stava il grande cavalletto per la pittura e, di fianco, un vasto tavolo ricoperto di marmo dove mischiava i colori a olio; un rimasuglio dei tentativi di impasto non utilizzati pendeva secco dal bordo del marmo. Sulla parete di fondo una finestrella aperta sui campi della Bassa. Anzi «sul» campo, il «Campo G» che Congdon ha «ritratto» in decine di oli e in centinaia di pastelli. Quando infatti i dolori artritici non gli permisero più di compere l’ampio gesto necessario per tavole di grandi dimensioni e l’indebolimento muscolare rese difficile l’uso della spatola, Bill si inventò la tecnica di disegnare su piccoli fogli d’album con pastelli grassi di una marca tedesca che non ricordo; a volte copriva tutto lo spazio disponibile con un’infinità di linee; altre volte si limitava a tre o quattro segni, ciascuno dei quali raffigurava gli elementi essenziali, ad esempio, del «campo G»: il cielo, il prato, il fosso e gli alberi che lo costeggiavano. Pochi segni, ma dai rapporti – cromatici e spaziali – perfetti, supremamente espressivi, «che cantano» diceva lui.
Gli incontri tra il Bill e me iniziavano sempre alla scrivania; mi chiedeva gentilmente qualcosa del mio ultimo periodo, si informava del mio lavoro, ma nel giro di pochissimi minuti veniva travolto dalla necessità di raccontare di sé o, meglio, della sua arte, delle sue scoperte, di quello che aveva fatto, di qualcosa che aveva osservato. Ho compreso, osservando questa dinamica per cui non riusciva proprio a non parlare del dono artistico che lo dominava, cosa intendessero i greci quando parlavano di daimon; niente a che vedere col nostro demonio: piuttosto una specie di spirito che viene da chissà dove – i romantici l’avrebbero chiamato «ispirazione» - e che si impossessa totalmente della persona, inducendola a mettere a sua disposizione – a disposizione della propria ricerca inesausta della bellezza – ogni pensiero, ogni movenza, ogni energia dell’artista che ne è «invasato».
Parlando di arte era ovvio che ad un certo punto ci si alzasse e si andare in corridoio a vedere gli ultimi quadri nati. Bill non diceva nulla, non commentava; semmai era ansioso di sentire cosa eventualmente avessi da dire io. Che con giovanile incoscienza e non poca - inconsapevole – supponenza mi azzardavo a fare commenti, a stabilire nessi, a pontificare: «Mi sembra che questo particolari richiami quello che hai fatto settimana scorsa…» oppure: «Ritengo molto efficace questo accostamento anche se…». Il comico è che di solito il Bill apprezzava con entusiasmo le mie osservazioni, mi ringraziava per i commenti, diceva di non aver mai pensato a quello che io avevo appena detto. Non era piaggeria, era che neanche lui – il posseduto dal dono o daimon che dir si voglia – si è mai sentito il proprietario esclusivo della sua opera e, tantomeno, l’interprete ufficiale; era come un padre davanti al figlioletto: orgoglioso della sua creatura e ancor più fiero che altri ne evidenzino la bellezza o la simpatia, ma non certo padrone di quella vita miracolosamente sgorgata da lui ma non sua.
Altre volte, più ragionevolmente, stavo in silenzio e cercavo di guardare – con lui al mio fianco che sbirciava le mie reazioni -, tentavo di capire quando il soggetto non si rivelava subito e quando una forma sconosciuta appariva sulla tavola (anche perché il titolo, che in quel caso poteva aiutare, Bill lo scriveva sempre dietro il quadro e potevo fare la brutta figura di confondere un campo della Bassa con una marina di Riccione dove Congdon trascorreva le vacanze. Una volta accadde che proprio non riuscivo a capire cosa rappresentasse un quadro e, così senza pensarci troppo chiesi: «Bill, me lo spieghi?». Non l’avessi mai fatto! Rispose tetro: «Hai proprio l’occhio del turisto». L’ultima parola non è un refuso; diceva proprio così. Il suo italiano è sempre stato piuttosto approssimativo - e questo gli ha consentito nei suoi scritti delle invenzioni lessicali incredibilmente efficaci – per cui essendo io un maschio gli sembrava ovvio che non potesse definirmi con un sostantivo che finisce, come i nomi femminili, in «a».
Io colsi subito la velenosità della sua risposta. Il turista era agli occhi di Congdon l’esatto opposto dell’artista. Mentre quest’ultimo si accosta riverente alle bellezze naturali o storiche per chiedere che rivelino il loro segreto, che mostrino la loro immagine – che poi l’artista trasferirà nel quadro -, il turista si butta su quella stessa bellezza per appropriarsene come rapido consumo, la fotografa per metterla nell’album da mostrare agli amici non per ricordarla con devozione, se ne impossessa senza farsene scalfire. L’artista rispetta profondamente quello che ha di fronte, il turista lo consuma voracemente; l’uno lo venera, l’altro lo devasta. Come ho già detto, Congdon ha visitato molti dei più bei posti del pianeta, ma non appena essi diventavano mete turistiche - proprio in forza della loro bellezza – lui non ci andava più; in tutto questo c’era senz’altro un po’ dello snobismo del ricco rampollo di una ricchissima stirpe di magnati del New England, ma c’era soprattutto il dolore di constatare un atteggiamento – quello del turista, appunto – irrispettoso della bellezza dei luoghi e del tutto impermeabile al loro richiamo meta-fisico, ad andare alla ricerca di quello cui quella bellezza ammicca.
Capii anche perché mi aveva dato del «turisto»; me lo aveva detto lui stesso molte volte: un’opera d’arte non si può «spiegare». Si spiega un teorema, si spiega il funzionamento di una macchina, si spiegano una regola di grammatica o la ratio di una legge, ma l’arte no. Si spiega ciò che è riconducibile a dati quantitativi, a meccanismi misurabili e l’arte non lo è. L’opera d’arte si guarda spalancati fino ad accorgersi che anche lei ci osserva e ci parla svelandoci qualcosa che non sapevamo di aver dentro: la nostalgia di un equilibrio, la ferita di una contraddizione, l’allegria di un canto, il fremito di un’angoscia e tanto, tanto altro ancora. Bill mi aveva insegnato a guardare i suoi quadri così e quel pomeriggio me ne ero dimenticato, ma credo che non mi capiterà più.
Così come non mi sono più dimenticato il piccolo segreto che una volta Bill mi svelò per valutare se un quadro – suo o di qualunque altro autore e stile – è riuscito oppure no. «Il quadro “funziona” – mi disse – se l’occhio che lo guarda è catturato da un punto (non importa quale; può essere diverso per ogni osservatore e per ogni volta che lo stesso osservatore guarda quel quadro), ma poi da quel punto è rinviato circolarmente ad altre parti del quadro e, da queste, ad altre ancora in un circuito che non si interrompe, in un cammino a spirale che, girando, si approfondisce (o si innalza a secondo della metafora che si preferisce). Se invece l’occhio è bloccato su un particolare, quel quadro non è riuscito». Usando anche questo criterio, Congdon è stato uno dei giudici più implacabili della sua stessa produzione: ha cancellato centinaia di tavole che non riteneva riuscite.
Il disegno capovolto e gli spinaci
Critico severo della propria opera, Bill era però anche fanciullescamente aperto ad ogni suggerimento, ad ogni interpretazione anche strampalata. Ne ho fatto esperienza attraverso un episodio divertente. In forza della mia amicizia con lui, convinsi il direttore della rivista in cui lavoravo, a dedicare a Congdon un inserto sulla sua ultima produzione: tante foto con bevi didascalie. Bill era molto contento e scegliemmo insieme le opere da riprodurre tra quelle della Bassa con le loro grandi campiture di colore. Questi quadri lui li chiamava «vergini» perché non sentiva il bisogno di intervenire – dopo la stesura del colore – a incidere la pasta cromatica per dare il senso della profondità o per alludere a qualche oggetto presente nella sua visuale: un albero, un uccello nel cielo, un casolare. Il puro e armonioso dialogo tra le masse colorate era sufficiente per dare consistenza architettonica al quadro. Il gesto, invece, di incidere il colore appena steso – risalente ai primissimi anni della sua attività di action painter – era in qualche modo uno scatto – a volte rabbioso, a volte dettato dall’insicurezza – con cui il soggetto, lui artista, si intrometteva nell’immagine, cercava di piegarla ai suoi scopi espressivi, usandole in qualche modo violenza; quando Congdon non sentiva il bisogno di tali interventi, chiamava «vergine» il quadro appena fatto. L’ultima pagina del’inserto programmato per la rivista doveva riportare un pastello del famoso «Campo G».
Tutto andò benissimo fino al momento immediatamente precedente la stampa: siccome ero impegnato in un altro servizio, non ho avuto modo di visionare le cianografiche, cioè di controllare che testi e immagini fossero posizionati correttamente in pagina per poi procedere all’incisione della lastra e quindi alla stampa. Il controllo lo fece il direttore, il quale non si accorse che il pastello dell’ultima pagina era stato montato sottosopra. Quando ho visto le prime copie stampate ero preoccupato soprattutto della resa dei colori, poi quando sono arrivato all’ultima pagina col disegno capovolto, quasi sono caduto dalla sedia: e chi glielo va a dire al Bill, cui dovevo portare l’inserto il giorno stesso? Il direttore era mortificato, ma ormai la frittata era fatta. Decise di organizzare una pietosa bugia: dovevo dire a Congdon che ci eravamo accorti subito dell’errore, avevamo fermato le macchine e avremmo rimesso tutto a posto ma che intanto gli avevo portato le prime copie (in realtà le 45 mila copie della rivista erano già tutte stampate con l’errore; ne avremmo messo in macchina un centinaio giuste da dare a Congdon in un secondo tempo).
Ansioso vado dunque all’appuntamento. Bill sfoglia compiaciuto e contento le pagine dell’inserto. Prima che arrivi al’ultima lo fermo e gli spiego quanto avevamo concordato. Lui mi ascolta, gira la pagina, guarda per pochi secondi il pastello capovolto e poi mi dice: «Ma è molto più bello a gambe all’aria!». Può darsi che in questa risposta ci sia anche un po’ di pietà per la mia evidente umiliazione, ma c’è sicuramente ben altro. E, cioè, la libertà di visione del’artista che non è mai legato alla ovvietà della percezione immediata. Non per nulla in quello stesso periodo Congdon aveva dipinto parecchi quadri con solo due elementi: la terra e il cielo; ma alcuni di essi non presentano la prima sotto ed il secondo sopra secondo la visione naturalistica, ma l’uno a desta e l’altra a sinistra; come se l’artista li guardasse da un’inedita prospettiva che, appunto, scombina i dati dell’immediatezza percettiva. E, del resto, il grande artista è proprio quello che sa offrire simili nuovi punti di vista.
Poche settimane dopo ho invitato Bill a pranzo a casa mia. Appena ci siamo seduti a tavola abbiamo cominciato una conversazione un po’ superficiale e faticosa, visto che ero l’unico a conoscerlo di persona e occorreva fare un po’ di presentazioni, rompere il ghiaccio dell’estraneità. Passati pochi minuti Bill, mi interrompe e dice di non essere venuto per fare conversazione più o meno leggera, ma perché, dallo stare insieme un’oretta, tutti imparassimo qualcosa, perché il tempo fugge veloce ed è sconsiderato perdere in inezie anche un solo istante. «A questo scopo – disse – ho preparato sei brevi riflessioni su cosa significa guardare, su cos’è il dono artistico e altro»; ha estratto dalla borsa dei grandi fogli e ha cominciato a leggere la prima di queste meditazioni. Siamo rimasti di stucco, ma nessuno si è annoiato; anzi mai così chiaramente abbiamo capito quanto intensa e bella sia una conversazione che ha chiaro il proprio scopo e quanto sia importante non disperdersi nella banalità. Perché non c’è nulla di banale, nulla che non trasmetta un messaggio o provochi un approfondimento di coscienza. Così, quando abbiamo portato in tavola un vassoio di spinaci come contorno, Bill se ne uscì con un’esattissima osservazione di fisica dei colori: «Ma quanto blu c’è in questo spinacio!». Eh sì, il verde è composto da giallo e blu e quanto più è scuro tanto più il secondo prevale sul primo; nessuno di noi commensali ci aveva mai pensato.
Il nulla e il pino
Bill era un uomo profondamente religioso e – dopo la conversione avvenuta proprio qui ad Assisi nel 1959 nell’ambito della Pro Civitate Christiana e per la paterna benevolenza di don Giovanni Rossi – un cattolico convinto. Sempre da artista. Com’è noto, la sua produzione si è concentrata sul soggetto sacro solo negli anni immediatamente successivi alla conversione e comporta opere di grande valore; per rendersene conto basta visitare la sala della Galleria d’Arte Contemporanea della Pro Civitate, dove campeggia il grande Getsemani. Solo il tema del «Crocefisso» è proseguito molto avanti negli anni, accumulando una «serie» di quasi duecento dipinti molto diversi l’uno dall’altro ed in continua evoluzione stilistica e contenutistica. Uno dei vertici di questa indefessa ricerca sul soggetto del crocefisso è senz’altro il numero 90. La storia della sua realizzazione – che mi raccontò più di una volta - è estremamente istruttiva.
Prima di riferirla occorre dire una cosa importante quanto al metodo con cui Congdon dipingeva. All’inizio stava sempre il guadare; che si tratti di una città o di un monumento, di una nave o di un campo, il primum è l’oggetto fuori di sé. Per imprimersi nella memoria le caratteristiche essenziali dell’oggetto visto Congdon prendeva degli «appunti» su dei blocchi di disegno: fissava gli estremi delle masse – come gli aveva insegnato un suo vecchio maestro di scultura, la sua prima passione, che gli faceva disegnare i corpi dei bagnanti contro il sole perché l’occhio dell’artista non fosse distolto ai dettagli ma si concentrasse, appunto, sulla corposità dell’insieme – e scriveva i nomi dei colori che dovevano riempire quei contorni (ma su quei blocchi Congdon annotava anche folgoranti nessi tra quello che stava vedendo e la sua vita interiore oppure precedenti visioni). Se la cosa vista aveva fatto nascere in lui «l’immagine» (che non è il puro oggetto ma la sua trasfigurazione nella sensibilità dell’artista), Congdon tornava in studio ed aspettava che quella immagine crescesse in lui fino ad esigere di essere portata sulla tavola. A riguardo egli paragonava se stesso ad una donna incinta dell’immagine e l’atto di dipingere al parto e, quindi, i quadri a suoi figli.
Toniamo al Cricefisso 90. Siamo nel 1974, Congdon aveva iniziato una «serie» a partire dalle immagini che si erano impresse in lui nel viaggio a Bombay fatto l’anno precedente. Una fra tutte lo dominava: la strada sul cui ciglio vegetava e spesso moriva una folla indistinta di paria, miseri senza risorse per sopravvivere. I loro corpi e i poveri cenci di cui erano involti si confondevano col catrame della strada in un unico, doloroso, impasto. Sofferenza e morte avevano sempre impressionato Congdon, fin dai tempio in cui aveva partecipato alla guerra e aveva schizzato sui suoi notes i volti e i corpi dei feriti in battaglia o dei prigionieri a Bergen Belsen. Quella strada lo angosciava e ad un tratto pensò che a morire là, in quel modo orrendo, era ancora una volta il Figlio di Dio venuto in questo mondo per assumere su di sé tutti i dolori e i peccati degli uomini. Improvvisamente si accorse, vide, che quella strada – una leggera curva che tagliava a metà il quadro – «era» il corpo sofferente, la «larva» di Gesù in croce. Così l’immagine ha trovato il suo vero titolo: Crocefisso 90. Finalmente uno dei misteri del cristianesimo – anzi, quello centrale assieme all’ineffabile risurrezione – non era più un soggetto lontano, raggiungibile solo con uno sforzo di immaginazione, bensì un fatto presente, così presente da dare significazione ad un concretissimo avvenimento dell’oggi. Questo era il cristianesimo di Congdon.
Quanto all’abissale religiosità che lo contraddistingueva, non posso che raccontare un dialogo avuto con lui. Stavamo passeggiando nella campagna attorno al monastero. In silenzio. Ad un certo punto si fermò e mi chiese: «Cosa vedi?». A qualche decina di metri cera un grande albero e risposi: «Un pino». «Ecco, soggiunse lui pensoso: io non vedo il pino, ma vedo il nulla da cui un Altro sta facendo nascere il pino». Una percezione metafisica profondissima. Che, tra l’altro, mi fece comprendere come mai si dice che l’artista «crea»; può essere una sciocca presunzione, ma può anche indicare l’umile imitazione del Creatore di tutte le cose, che nasce dall’abitudine a vederlo in azione.
Il regalo
In seguito, per via della mia mutata condizione abitativa e di lavoro, i nostri incontri si sono molto diradati. Pochi mesi prima che morisse mi fu chiesta la disponibilità ad assisterlo un sabato pomeriggio in cui chi lo accudiva professionalmente faceva il turno di riposo. Andai. Bill non poteva più camminare e si spostava con una carrozzella. Entrato nello studio lo trovai però seduto alla sedia della sua scrivania di sempre. Mi accolse come se ci fossimo lasciati il giorno prima e con cordialità mi chiese cosa avessi fatto e di cosa mi stessi occupando. Io gli risposi e poi domandai della sua salute; non si lamentava, anche se oramai i movimenti erano ridotti e, comunque, continuava a dipingere. Non solo i pastelli che già faceva da anni, ma anche piccole tavole a olio. Ad un certo punto mi disse: «Portami in studio, che sta per nascermi un figlio». Ero angustiato perché si trattava anzitutto di trasferirlo dalla sedia della scrivania a quella a rotelle e io non ero esperto delle manovre necessarie e lui molto pesante. In qualche modo ci riuscii. Lo spinsi attraverso il corridoio dove erano esposti gli ultimi piccoli quadretti; non volle che ci fermassimo a guardarli, aveva urgenza di andare in «sala parto». Giuntici mi chiese gentilmente ma fermamente di lasciarlo solo: nessuno doveva disturbarlo nella delicata operazione di partorire un quadro. Uscii preoccupato: se cade? se si sente male? se ha bisogno di un qualche tipo particolare di spatola? Ma non potevo trasgredire la sua perentoria ingiunzione. Tornai in camera e aspettai con l’orecchio teso al minimo rumore. Dopo tre ore mi chiamò: «Vieni a prendermi». Corsi. Era già arrivato da solo vicino alla porta e così non potei vedere cosa ci fosse sul cavalletto. Accennai, curioso, un passo all’interno dello studio, ma lui mi disse: «Non entrare. Quando un bambino è appena nato, non bisogna disturbarlo. Io, dopo che un quadro è nato esco subito dallo studio e aspetto, magari fino al giorno dopo. Poi rientro e lo guardo: se mi accorgo che è vivo, batto le mani tutto contento». Uscimmo. Ormai era tardi, l’assistente del turno successivo era già arrivato e, così, ci salutammo.
Non lo rividi. Però conservo gelosamente il piccolo Senza titolo, il quadretto che era nato a Congdon quel sabato pomeriggio e che lui, con suprema cortesia e impagabile amicizia, qualche giorno dopo mi fece recapitare a casa. Era vivo e lo è ancora, appeso sul muro della mia camera; e mi ricorda la lezione di sguardo offertami, senza alcun mio merito, da William Congdon.
Assisi 21 marzo 2015
di Pigi Colognesi
L’omaggio ad un grande pittore è di solito conferito per ragioni squisitamente legate alla sua attività artistica. Il compito del critico è esattamente quello di analizzarne l’opera, di scoprirne i tratti essenziali e le evoluzioni nel tempo, di indagarne affinità e divergenze rispetto al contesto, di coglierne quel “quid” che la rende unica e che costituisce il lascito perenne che quell’opera consegna al futuro. È un lavoro che, per quanto riguarda l’opera di William Congdon, è iniziato fin dai tempi del suo strepitoso successo come uno dei più promettenti rappresentanti dell’action painting o, se si vuole, della cosiddetta «Scuola di New York» o, per usare un’altra espressione cara ai critici, dell’espressionismo astratto. Anche se nel, suo caso, il sostantivo può essere accettato, l’aggettivo no. Congdon non è mai stato «astratto», ma ha sempre dipinto ciò che i suoi occhi vedevano; che si trattasse degli orrori della guerra cui ha partecipato in qualità di autista d’ambulanza o dei grattacieli della Grande Mela ove si è trasferito alla fine degli anni Quaranta, di una delle innumerevoli mete del suo inesausto pellegrinare per il mondo – dall’Africa all’India, dall’America latina alle più note città d’arte italiane, prime fra tutte Venezia e Assisi – oppure della bassa milanese dei cui campi negli ultimi anni della vita ha cantato la continua trasformazione dovuta al lento mutare dei giorni ed alla paziente fatica umana. L’attenzione critica venne poi meno quando Congdon, staccatosi definitivamente dalla sua patria, si trasferì in Italia e intraprese un personalissimo cammino di fede cattolica con evidenti ricadute sulla sua arte; un cammino dapprima guardato con una certa curiosità – un po’ come quella che si riserva ad un animale esotico – e poi sostanzialmente dimenticato. Solo nei due ultimi decenni della vita di Congdon la critica ha ripreso ad interessarsi della sua opera (anche perché essa, proprio in quegli anni della vecchiaia, ha mostrato sorprendenti capacità di rinnovamento, di invenzione di forme e di novità di stile), ma molto resta ancora da fare ed è con gratitudine che si guarda al lavoro che la Fondazione a lui intitolata promuove con tenacia iniziative in questa direzione.
Ma io non sono un critico d’arte, per cui il mio «omaggio a William Congdon» non può essere, stasera, quello di un sia pur piccolo contributo allo svelamento di aspetti importanti della sua produzione.
Altro tipo di omaggio è quello che può offrire chi abbia fatto dell’opera di un artista il proprio modello, vi abbia riconosciuto un maestro o addirittura un padre. È il contenuto stesso della mostra che stiamo per inaugurare e Riccardo Secchi è ben più titolato di me a parlarne.
L’unico omaggio che posso quindi offrire a Congdon è quello di un amico che ricorda a chi benevolmente lo ascolta alcuni tratti dell’amicizia vissuta e ciò che da essi ha imparato.
L’esplosione e il dado
Di William Congdon ho sentito parlare per la prima volta negli anni Settanta, nell’ambiente di Comunione e Liberazione; avevo sfogliato qualche articolo su di lui e tentato – senza successo - di leggere uno strano libro intitolato Esistenza viaggio in cui erano raccolti suoi pensieri in merito al lavoro artistico e a ciò che in lui sempre lo precedeva: il guardare. Ammetto di non averci capito quasi niente e di non essermene neppure rammaricato più di tanto: astrusità d’artista, pensavo.
Le cose cambiarono decisamente quando andai ad abitare in una casa del Memores Domini alle cui pareti c’erano due quadri di Congdon. Il primo era un Winter dalla tonalità grigia, che ho imparato a guardare con attenzione perché si trovava nella sala in cui pregavamo e passavamo le serate, magari ascoltando musica insieme (in quelle serate ho, tra l’altro, imparato ad apprezzare la musica di Stravinskij, legato a Congdon da reciproca stima, che nella sua ricchezza timbrica e ritmica ha molte somiglianze con la tavolozza del nostro pittore). Ma è stato il secondo quadro – era appeso in corridoio - a diventarmi compagno e, in qualche modo ad invogliarmi ad approfondire. Si tratta del piccolo e potentissimo New York explosion, uno dei capolavori del primo periodo congdoniano. Sullo sfondo di un reticolo confuso di strade e palazzi, visti dall’alto, è scesa – o risalita dal profondo? – una macchia nera che allunga i suoi tentacoli mortali sul groviglio della più grande e vivace metropoli del mondo. Certo, è una denuncia della disumanizzazione prodotta dalla incombente civiltà delle macchine; è il grido di un giovane «provinciale» (Congdon è nato nella dislocata Providence, capitale del piccolo stato del Rhode Island) a disagio nell’anonimato metropolitano. Ma è anche, quella macchia nera, incomparabile immagine di ogni disagio esistenziale, di ogni domanda irrisolta – e chi non ne ha a 25 anni, come allora ne avevo io? -, di ogni turbamento. Quel buco nero – fratello della voragine del Colosseo o dello scoglio frantumato di Santorini che Congdon avrebbe dipinto negli anni successivi – è l’inconscio ferito, è l’angoscia che attanaglia e, nel contempo è la speranza che un qualche fattore imprevedibile possa sopraggiungere a far esplodere il meccanismo perverso della città tentacolare e aprire finalmente l’orizzonte su un paesaggio pulito e pacificato. Con quest’ansia speranzosa guardavo, tutte le mattine uscendo di casa e tutte le sere ritornandovi, il piccolo Explosion.
Poi ebbi l’occasione di conoscere personalmente il pittore americano e cominciai a frequentarlo con una certa assiduità.
Allora – siamo nella prima metà degli anni Ottanta - lavoravo alla redazione della rivista mensile di CL. Per le festività natalizie eravamo soliti stampare un manifesto che aiutasse la memoria della solennità imminente. Un anno decidemmo che l’immagine sarebbe stata un quadro di Congdon e la frase «Lui è qui». Non scegliemmo uno dei quadri a soggetto religioso - che pure Congdon, approdato alla fede nel 1959, aveva dipinto -, ma un particolare di Giallo con blu, uno dei meravigliosi quadri ad ampie campiture cromatiche che caratterizzavano la sua produzione di quegli anni nella Bassa milanese. In questa tavola, il cielo - di un azzurro dolcissimo e denso – appare miracolosamente sprofondato in un campo ed è quindi tutto circondato da giallissimo splendore di grano; ci sembrava una bella immagine, adatta a rappresentare il miracolo natalizio dell’incarnazione: il cielo che entra inaspettatamente nella terra degli uomini. La scritta a fianco decidemmo di farla in bianco su un fondo verde petrolio. A me l’esito visivo sembrava molto bello; ma quel manifesto non piacque; ricordo anzi il disprezzo con cui un amico, guardando quell’insieme dominato dal giallo e dal verde petrolio mi chiese se per caso avevamo deciso di fare la pubblicità al dado Knorr!
Ho capito allora quanto fosse non scontato apprezzare l’arte di Congdon. A me piaceva perché avevo cominciato a frequentarlo a discutere con lui di questo o quel quadro, a fermarmi in silenzio di fronte ad una tavola in attesa che essa mi svelasse qualcosa di più del fascino che pur esercitava di schianto su di me. Mi piaceva perché cominciavo anche ad approfondire – usando quel poco che allora era disponibile - le caratteristiche della sua pittura e a conoscere più in dettaglio la sua storia personale. Ma a chi si trova impreparato di fronte ad una sua opera – per di più nella versione riprodotta fotograficamente che, per quanta cura ci si metta, non riesce a rendere tutto lo spessore della pasta colorata, a ridare l’esperienza che si fa guardando l’originale dal vivo e scoprendo che basta spostarsi di un passo che perché la luce colpisca diversamente e metta in rilievo linee, solchi e persino colori che prima non si erano visti –, a chi è impreparato può accadere di non cogliere nulla, di non essere sollecitati in nessun modo. Occorre quella che Congdon chiamava «educazione dell’occhio». Essa è necessaria - l’avrei capito proprio guardando insieme a lui – anche per la pittura più «facile»; facile perché ha un contenuto visivo evidente (mentre di certi suoi quadri non si capisce a prima vista che cosa rappresentino) o facile perché universalmente nota ed apprezzata; e qui il rischio è quello di renderle un omaggio assolutamente ovvio ed estrinseco alla propria esperienza visiva.
Occhio di turisto
Certamente l’amicizia con Congdon che ho coltivato in quegli anni è stata la più grande educazione che il mio occhio abbia mai avuto. Di solito ci vedevamo nel suo piccolo appartamento situato nel cortile del monastero benedettino detto della Cascinazza, nella frazione Gudo Gambaredo del comune di Buccinasco nella Bassa milanese. Per chi non conoscesse quei luoghi è necessario farne una sommaria descrizione. Prima di tutto il terreno è assolutamente, irrimediabilmente piatto; non si vede alcun sommovimento, nessun innalzamento né avvallamento. Solo nelle – non numerose – giornate di cielo terso si possono di lontano scorgere, a nord, la catena delle Alpi e, a sud, la sagoma degli Appennini. Questa piattezza – che Congdon definiva, lui che aveva visitato i siti più mirabili del mondo, un brutto buco – è però estremamente fertile. A partire dal lavorio dei monaci – la cistercense Chiaravalle è a pochi chilometri da Gudo – gli acquitrini malsani della bassa sono stati trasformati in campi fecondi, ricchi di foraggio (le celebri marcite), di grano e di riso. Campi ordinatamente attraversati dalle strade necessarie ai contadini e, soprattutto, dai fossi adibiti all’irrigazione. Quasi assenti gli alberi: qualche filare di robinie lungo i fossi e poco altro sparso qua e là. D’estate la Bassa è rigogliosa non solo dei frutti della terra, ma anche di miriadi di insetti, soprattutto – data la ricchezza di acqua – di implacabili zanzare. Ma il periodo più caratteristico e strano per chi non vi abbia mai abitato è l’inverno: cala impenetrabile la nebbia che nasconde ogni cosa a distanza di pochi passi. Per un pittore dagli occhi perennemente assetati di immagini è uno shock: non vede nulla. Eppure il Bill – mi sia consentito di usare d’ora in poi questo modulo espressivo tipicamente milanese – ha affrontato coraggiosamente anche questa estrema povertà; scoprendo da un lato l’infinita ricchezza cromatica che sta dentro l’apparente grigiore della nebbia e, dall’altro, cogliendone l’acuto aspetto metaforico: un velo che, mentre lo nasconde, rimanda a qualcosa che gli sta dietro. È in fondo, la dinamica di ogni immagine artistica.
La casetta dove Bill abitava era a due piani e lui occupava il secondo; dal cortile si saliva una scala e poi si entrava direttamente nello studio; la piccola cucina era ricavata in un bugigattolo di fronte alla porta d’ingresso. Due gli unici arredi dello studio. Una grande scrivania (con la luce alle spalle), seduto alla quale passava tutte le ore non dedicate alla pittura: lettura e, soprattutto, scrittura. Bill scriveva spessissimo: pagine di diario, lettere, riflessioni, appunti di meditazioni, testi di conferenze; la sua grafia ampia, rotonda ha vergato migliaia di pagine: una miniera che ancora attende di essere adeguatamente scavata. Altro arredo il letto: una semplice rete con materasso, lenzuola e coperte; nient’altro. All’estremità dello studio opposta all’ingresso si apriva un corridoio: a sinistra una parete arredata con delle piccole mensole su cui appoggiava ad asciugare i quadri appena dipinti; a destra un’infilata di finestre che illuminavano pienamente quei quadri. In fondo al corridoio la porta che introduceva allo studio. Sotto un lucernario che dava luce dall’alto stava il grande cavalletto per la pittura e, di fianco, un vasto tavolo ricoperto di marmo dove mischiava i colori a olio; un rimasuglio dei tentativi di impasto non utilizzati pendeva secco dal bordo del marmo. Sulla parete di fondo una finestrella aperta sui campi della Bassa. Anzi «sul» campo, il «Campo G» che Congdon ha «ritratto» in decine di oli e in centinaia di pastelli. Quando infatti i dolori artritici non gli permisero più di compere l’ampio gesto necessario per tavole di grandi dimensioni e l’indebolimento muscolare rese difficile l’uso della spatola, Bill si inventò la tecnica di disegnare su piccoli fogli d’album con pastelli grassi di una marca tedesca che non ricordo; a volte copriva tutto lo spazio disponibile con un’infinità di linee; altre volte si limitava a tre o quattro segni, ciascuno dei quali raffigurava gli elementi essenziali, ad esempio, del «campo G»: il cielo, il prato, il fosso e gli alberi che lo costeggiavano. Pochi segni, ma dai rapporti – cromatici e spaziali – perfetti, supremamente espressivi, «che cantano» diceva lui.
Gli incontri tra il Bill e me iniziavano sempre alla scrivania; mi chiedeva gentilmente qualcosa del mio ultimo periodo, si informava del mio lavoro, ma nel giro di pochissimi minuti veniva travolto dalla necessità di raccontare di sé o, meglio, della sua arte, delle sue scoperte, di quello che aveva fatto, di qualcosa che aveva osservato. Ho compreso, osservando questa dinamica per cui non riusciva proprio a non parlare del dono artistico che lo dominava, cosa intendessero i greci quando parlavano di daimon; niente a che vedere col nostro demonio: piuttosto una specie di spirito che viene da chissà dove – i romantici l’avrebbero chiamato «ispirazione» - e che si impossessa totalmente della persona, inducendola a mettere a sua disposizione – a disposizione della propria ricerca inesausta della bellezza – ogni pensiero, ogni movenza, ogni energia dell’artista che ne è «invasato».
Parlando di arte era ovvio che ad un certo punto ci si alzasse e si andare in corridoio a vedere gli ultimi quadri nati. Bill non diceva nulla, non commentava; semmai era ansioso di sentire cosa eventualmente avessi da dire io. Che con giovanile incoscienza e non poca - inconsapevole – supponenza mi azzardavo a fare commenti, a stabilire nessi, a pontificare: «Mi sembra che questo particolari richiami quello che hai fatto settimana scorsa…» oppure: «Ritengo molto efficace questo accostamento anche se…». Il comico è che di solito il Bill apprezzava con entusiasmo le mie osservazioni, mi ringraziava per i commenti, diceva di non aver mai pensato a quello che io avevo appena detto. Non era piaggeria, era che neanche lui – il posseduto dal dono o daimon che dir si voglia – si è mai sentito il proprietario esclusivo della sua opera e, tantomeno, l’interprete ufficiale; era come un padre davanti al figlioletto: orgoglioso della sua creatura e ancor più fiero che altri ne evidenzino la bellezza o la simpatia, ma non certo padrone di quella vita miracolosamente sgorgata da lui ma non sua.
Altre volte, più ragionevolmente, stavo in silenzio e cercavo di guardare – con lui al mio fianco che sbirciava le mie reazioni -, tentavo di capire quando il soggetto non si rivelava subito e quando una forma sconosciuta appariva sulla tavola (anche perché il titolo, che in quel caso poteva aiutare, Bill lo scriveva sempre dietro il quadro e potevo fare la brutta figura di confondere un campo della Bassa con una marina di Riccione dove Congdon trascorreva le vacanze. Una volta accadde che proprio non riuscivo a capire cosa rappresentasse un quadro e, così senza pensarci troppo chiesi: «Bill, me lo spieghi?». Non l’avessi mai fatto! Rispose tetro: «Hai proprio l’occhio del turisto». L’ultima parola non è un refuso; diceva proprio così. Il suo italiano è sempre stato piuttosto approssimativo - e questo gli ha consentito nei suoi scritti delle invenzioni lessicali incredibilmente efficaci – per cui essendo io un maschio gli sembrava ovvio che non potesse definirmi con un sostantivo che finisce, come i nomi femminili, in «a».
Io colsi subito la velenosità della sua risposta. Il turista era agli occhi di Congdon l’esatto opposto dell’artista. Mentre quest’ultimo si accosta riverente alle bellezze naturali o storiche per chiedere che rivelino il loro segreto, che mostrino la loro immagine – che poi l’artista trasferirà nel quadro -, il turista si butta su quella stessa bellezza per appropriarsene come rapido consumo, la fotografa per metterla nell’album da mostrare agli amici non per ricordarla con devozione, se ne impossessa senza farsene scalfire. L’artista rispetta profondamente quello che ha di fronte, il turista lo consuma voracemente; l’uno lo venera, l’altro lo devasta. Come ho già detto, Congdon ha visitato molti dei più bei posti del pianeta, ma non appena essi diventavano mete turistiche - proprio in forza della loro bellezza – lui non ci andava più; in tutto questo c’era senz’altro un po’ dello snobismo del ricco rampollo di una ricchissima stirpe di magnati del New England, ma c’era soprattutto il dolore di constatare un atteggiamento – quello del turista, appunto – irrispettoso della bellezza dei luoghi e del tutto impermeabile al loro richiamo meta-fisico, ad andare alla ricerca di quello cui quella bellezza ammicca.
Capii anche perché mi aveva dato del «turisto»; me lo aveva detto lui stesso molte volte: un’opera d’arte non si può «spiegare». Si spiega un teorema, si spiega il funzionamento di una macchina, si spiegano una regola di grammatica o la ratio di una legge, ma l’arte no. Si spiega ciò che è riconducibile a dati quantitativi, a meccanismi misurabili e l’arte non lo è. L’opera d’arte si guarda spalancati fino ad accorgersi che anche lei ci osserva e ci parla svelandoci qualcosa che non sapevamo di aver dentro: la nostalgia di un equilibrio, la ferita di una contraddizione, l’allegria di un canto, il fremito di un’angoscia e tanto, tanto altro ancora. Bill mi aveva insegnato a guardare i suoi quadri così e quel pomeriggio me ne ero dimenticato, ma credo che non mi capiterà più.
Così come non mi sono più dimenticato il piccolo segreto che una volta Bill mi svelò per valutare se un quadro – suo o di qualunque altro autore e stile – è riuscito oppure no. «Il quadro “funziona” – mi disse – se l’occhio che lo guarda è catturato da un punto (non importa quale; può essere diverso per ogni osservatore e per ogni volta che lo stesso osservatore guarda quel quadro), ma poi da quel punto è rinviato circolarmente ad altre parti del quadro e, da queste, ad altre ancora in un circuito che non si interrompe, in un cammino a spirale che, girando, si approfondisce (o si innalza a secondo della metafora che si preferisce). Se invece l’occhio è bloccato su un particolare, quel quadro non è riuscito». Usando anche questo criterio, Congdon è stato uno dei giudici più implacabili della sua stessa produzione: ha cancellato centinaia di tavole che non riteneva riuscite.
Il disegno capovolto e gli spinaci
Critico severo della propria opera, Bill era però anche fanciullescamente aperto ad ogni suggerimento, ad ogni interpretazione anche strampalata. Ne ho fatto esperienza attraverso un episodio divertente. In forza della mia amicizia con lui, convinsi il direttore della rivista in cui lavoravo, a dedicare a Congdon un inserto sulla sua ultima produzione: tante foto con bevi didascalie. Bill era molto contento e scegliemmo insieme le opere da riprodurre tra quelle della Bassa con le loro grandi campiture di colore. Questi quadri lui li chiamava «vergini» perché non sentiva il bisogno di intervenire – dopo la stesura del colore – a incidere la pasta cromatica per dare il senso della profondità o per alludere a qualche oggetto presente nella sua visuale: un albero, un uccello nel cielo, un casolare. Il puro e armonioso dialogo tra le masse colorate era sufficiente per dare consistenza architettonica al quadro. Il gesto, invece, di incidere il colore appena steso – risalente ai primissimi anni della sua attività di action painter – era in qualche modo uno scatto – a volte rabbioso, a volte dettato dall’insicurezza – con cui il soggetto, lui artista, si intrometteva nell’immagine, cercava di piegarla ai suoi scopi espressivi, usandole in qualche modo violenza; quando Congdon non sentiva il bisogno di tali interventi, chiamava «vergine» il quadro appena fatto. L’ultima pagina del’inserto programmato per la rivista doveva riportare un pastello del famoso «Campo G».
Tutto andò benissimo fino al momento immediatamente precedente la stampa: siccome ero impegnato in un altro servizio, non ho avuto modo di visionare le cianografiche, cioè di controllare che testi e immagini fossero posizionati correttamente in pagina per poi procedere all’incisione della lastra e quindi alla stampa. Il controllo lo fece il direttore, il quale non si accorse che il pastello dell’ultima pagina era stato montato sottosopra. Quando ho visto le prime copie stampate ero preoccupato soprattutto della resa dei colori, poi quando sono arrivato all’ultima pagina col disegno capovolto, quasi sono caduto dalla sedia: e chi glielo va a dire al Bill, cui dovevo portare l’inserto il giorno stesso? Il direttore era mortificato, ma ormai la frittata era fatta. Decise di organizzare una pietosa bugia: dovevo dire a Congdon che ci eravamo accorti subito dell’errore, avevamo fermato le macchine e avremmo rimesso tutto a posto ma che intanto gli avevo portato le prime copie (in realtà le 45 mila copie della rivista erano già tutte stampate con l’errore; ne avremmo messo in macchina un centinaio giuste da dare a Congdon in un secondo tempo).
Ansioso vado dunque all’appuntamento. Bill sfoglia compiaciuto e contento le pagine dell’inserto. Prima che arrivi al’ultima lo fermo e gli spiego quanto avevamo concordato. Lui mi ascolta, gira la pagina, guarda per pochi secondi il pastello capovolto e poi mi dice: «Ma è molto più bello a gambe all’aria!». Può darsi che in questa risposta ci sia anche un po’ di pietà per la mia evidente umiliazione, ma c’è sicuramente ben altro. E, cioè, la libertà di visione del’artista che non è mai legato alla ovvietà della percezione immediata. Non per nulla in quello stesso periodo Congdon aveva dipinto parecchi quadri con solo due elementi: la terra e il cielo; ma alcuni di essi non presentano la prima sotto ed il secondo sopra secondo la visione naturalistica, ma l’uno a desta e l’altra a sinistra; come se l’artista li guardasse da un’inedita prospettiva che, appunto, scombina i dati dell’immediatezza percettiva. E, del resto, il grande artista è proprio quello che sa offrire simili nuovi punti di vista.
Poche settimane dopo ho invitato Bill a pranzo a casa mia. Appena ci siamo seduti a tavola abbiamo cominciato una conversazione un po’ superficiale e faticosa, visto che ero l’unico a conoscerlo di persona e occorreva fare un po’ di presentazioni, rompere il ghiaccio dell’estraneità. Passati pochi minuti Bill, mi interrompe e dice di non essere venuto per fare conversazione più o meno leggera, ma perché, dallo stare insieme un’oretta, tutti imparassimo qualcosa, perché il tempo fugge veloce ed è sconsiderato perdere in inezie anche un solo istante. «A questo scopo – disse – ho preparato sei brevi riflessioni su cosa significa guardare, su cos’è il dono artistico e altro»; ha estratto dalla borsa dei grandi fogli e ha cominciato a leggere la prima di queste meditazioni. Siamo rimasti di stucco, ma nessuno si è annoiato; anzi mai così chiaramente abbiamo capito quanto intensa e bella sia una conversazione che ha chiaro il proprio scopo e quanto sia importante non disperdersi nella banalità. Perché non c’è nulla di banale, nulla che non trasmetta un messaggio o provochi un approfondimento di coscienza. Così, quando abbiamo portato in tavola un vassoio di spinaci come contorno, Bill se ne uscì con un’esattissima osservazione di fisica dei colori: «Ma quanto blu c’è in questo spinacio!». Eh sì, il verde è composto da giallo e blu e quanto più è scuro tanto più il secondo prevale sul primo; nessuno di noi commensali ci aveva mai pensato.
Il nulla e il pino
Bill era un uomo profondamente religioso e – dopo la conversione avvenuta proprio qui ad Assisi nel 1959 nell’ambito della Pro Civitate Christiana e per la paterna benevolenza di don Giovanni Rossi – un cattolico convinto. Sempre da artista. Com’è noto, la sua produzione si è concentrata sul soggetto sacro solo negli anni immediatamente successivi alla conversione e comporta opere di grande valore; per rendersene conto basta visitare la sala della Galleria d’Arte Contemporanea della Pro Civitate, dove campeggia il grande Getsemani. Solo il tema del «Crocefisso» è proseguito molto avanti negli anni, accumulando una «serie» di quasi duecento dipinti molto diversi l’uno dall’altro ed in continua evoluzione stilistica e contenutistica. Uno dei vertici di questa indefessa ricerca sul soggetto del crocefisso è senz’altro il numero 90. La storia della sua realizzazione – che mi raccontò più di una volta - è estremamente istruttiva.
Prima di riferirla occorre dire una cosa importante quanto al metodo con cui Congdon dipingeva. All’inizio stava sempre il guadare; che si tratti di una città o di un monumento, di una nave o di un campo, il primum è l’oggetto fuori di sé. Per imprimersi nella memoria le caratteristiche essenziali dell’oggetto visto Congdon prendeva degli «appunti» su dei blocchi di disegno: fissava gli estremi delle masse – come gli aveva insegnato un suo vecchio maestro di scultura, la sua prima passione, che gli faceva disegnare i corpi dei bagnanti contro il sole perché l’occhio dell’artista non fosse distolto ai dettagli ma si concentrasse, appunto, sulla corposità dell’insieme – e scriveva i nomi dei colori che dovevano riempire quei contorni (ma su quei blocchi Congdon annotava anche folgoranti nessi tra quello che stava vedendo e la sua vita interiore oppure precedenti visioni). Se la cosa vista aveva fatto nascere in lui «l’immagine» (che non è il puro oggetto ma la sua trasfigurazione nella sensibilità dell’artista), Congdon tornava in studio ed aspettava che quella immagine crescesse in lui fino ad esigere di essere portata sulla tavola. A riguardo egli paragonava se stesso ad una donna incinta dell’immagine e l’atto di dipingere al parto e, quindi, i quadri a suoi figli.
Toniamo al Cricefisso 90. Siamo nel 1974, Congdon aveva iniziato una «serie» a partire dalle immagini che si erano impresse in lui nel viaggio a Bombay fatto l’anno precedente. Una fra tutte lo dominava: la strada sul cui ciglio vegetava e spesso moriva una folla indistinta di paria, miseri senza risorse per sopravvivere. I loro corpi e i poveri cenci di cui erano involti si confondevano col catrame della strada in un unico, doloroso, impasto. Sofferenza e morte avevano sempre impressionato Congdon, fin dai tempio in cui aveva partecipato alla guerra e aveva schizzato sui suoi notes i volti e i corpi dei feriti in battaglia o dei prigionieri a Bergen Belsen. Quella strada lo angosciava e ad un tratto pensò che a morire là, in quel modo orrendo, era ancora una volta il Figlio di Dio venuto in questo mondo per assumere su di sé tutti i dolori e i peccati degli uomini. Improvvisamente si accorse, vide, che quella strada – una leggera curva che tagliava a metà il quadro – «era» il corpo sofferente, la «larva» di Gesù in croce. Così l’immagine ha trovato il suo vero titolo: Crocefisso 90. Finalmente uno dei misteri del cristianesimo – anzi, quello centrale assieme all’ineffabile risurrezione – non era più un soggetto lontano, raggiungibile solo con uno sforzo di immaginazione, bensì un fatto presente, così presente da dare significazione ad un concretissimo avvenimento dell’oggi. Questo era il cristianesimo di Congdon.
Quanto all’abissale religiosità che lo contraddistingueva, non posso che raccontare un dialogo avuto con lui. Stavamo passeggiando nella campagna attorno al monastero. In silenzio. Ad un certo punto si fermò e mi chiese: «Cosa vedi?». A qualche decina di metri cera un grande albero e risposi: «Un pino». «Ecco, soggiunse lui pensoso: io non vedo il pino, ma vedo il nulla da cui un Altro sta facendo nascere il pino». Una percezione metafisica profondissima. Che, tra l’altro, mi fece comprendere come mai si dice che l’artista «crea»; può essere una sciocca presunzione, ma può anche indicare l’umile imitazione del Creatore di tutte le cose, che nasce dall’abitudine a vederlo in azione.
Il regalo
In seguito, per via della mia mutata condizione abitativa e di lavoro, i nostri incontri si sono molto diradati. Pochi mesi prima che morisse mi fu chiesta la disponibilità ad assisterlo un sabato pomeriggio in cui chi lo accudiva professionalmente faceva il turno di riposo. Andai. Bill non poteva più camminare e si spostava con una carrozzella. Entrato nello studio lo trovai però seduto alla sedia della sua scrivania di sempre. Mi accolse come se ci fossimo lasciati il giorno prima e con cordialità mi chiese cosa avessi fatto e di cosa mi stessi occupando. Io gli risposi e poi domandai della sua salute; non si lamentava, anche se oramai i movimenti erano ridotti e, comunque, continuava a dipingere. Non solo i pastelli che già faceva da anni, ma anche piccole tavole a olio. Ad un certo punto mi disse: «Portami in studio, che sta per nascermi un figlio». Ero angustiato perché si trattava anzitutto di trasferirlo dalla sedia della scrivania a quella a rotelle e io non ero esperto delle manovre necessarie e lui molto pesante. In qualche modo ci riuscii. Lo spinsi attraverso il corridoio dove erano esposti gli ultimi piccoli quadretti; non volle che ci fermassimo a guardarli, aveva urgenza di andare in «sala parto». Giuntici mi chiese gentilmente ma fermamente di lasciarlo solo: nessuno doveva disturbarlo nella delicata operazione di partorire un quadro. Uscii preoccupato: se cade? se si sente male? se ha bisogno di un qualche tipo particolare di spatola? Ma non potevo trasgredire la sua perentoria ingiunzione. Tornai in camera e aspettai con l’orecchio teso al minimo rumore. Dopo tre ore mi chiamò: «Vieni a prendermi». Corsi. Era già arrivato da solo vicino alla porta e così non potei vedere cosa ci fosse sul cavalletto. Accennai, curioso, un passo all’interno dello studio, ma lui mi disse: «Non entrare. Quando un bambino è appena nato, non bisogna disturbarlo. Io, dopo che un quadro è nato esco subito dallo studio e aspetto, magari fino al giorno dopo. Poi rientro e lo guardo: se mi accorgo che è vivo, batto le mani tutto contento». Uscimmo. Ormai era tardi, l’assistente del turno successivo era già arrivato e, così, ci salutammo.
Non lo rividi. Però conservo gelosamente il piccolo Senza titolo, il quadretto che era nato a Congdon quel sabato pomeriggio e che lui, con suprema cortesia e impagabile amicizia, qualche giorno dopo mi fece recapitare a casa. Era vivo e lo è ancora, appeso sul muro della mia camera; e mi ricorda la lezione di sguardo offertami, senza alcun mio merito, da William Congdon.